Il ghetto di Mantova
7 9 2023
Il ghetto di Mantova

Il lascito della comunità ebraica nella città e nella cultura mantovana

Festivaletteratura che parla della sua stessa Mantova. Di una Mantova particolare, di un grande pezzo della sua storia. Del suo quartiere ebraico. La prima parte di questo tour nel passato inizia nelle sale della biblioteca Teresiana, lascito sontuoso di Maria Teresa d’Austria. Francesca Ferrari, direttrice della biblioteca, ci racconta come venga conservato proprio in quel luogo un patrimonio unico al mondo, il fondo della biblioteca israelitica di Mantova, acquisizione della seconda metà del '700. Lascito di una comunità importantissima, seconda solo a quella di Venezia. A Mantova i caratteri mobili sono portati da un tipografo ebreo che dà inizio a una collaborazione particolare, con tipografi anche cristiani, grazie alla tolleranza gonzaghesca. Si stampa tantissimo, soprattutto dopo il clamore che fece il rogo del Talmud a Roma nel 1553. In Teresiana è custodita la prima edizione dello Zohar, insieme a 161 manoscritti, un incunabolo e moltissimi altri testi a stampa. La biblioteca diventa custode della memoria del territorio. In assenza di Luca Paolo Bernardini (che però sarà presente venerdì), è il presidente della comunità ebraica mantovana Emanuele Colorni che ci introduce nel ghetto di Mantova. Comunità ebraica che raggiunse le 6000 unità nel periodo di massima espansione della città (che conteneva 20-30mila abitanti). Il ghetto (dalla parola veneziana “geto”, fonderia, storpiata dagli ebrei ashkenaziti appunto in “ghetto”) fu fondato nel 1610-1612. Gli ebrei furono raggruppati tutti in questo quartiere e il trasbordo durò due anni. Con le persone furono trasferite anche le loro attività, i loro magazzini, i loro commerci. Il quartiere fu dotato di porte che il “chiavaro”, unico cristiano che poteva abitare in ghetto, apriva all’alba e chiudeva al tramonto. Per il resto, si poteva girare liberamente fuori e dentro il quartiere: gli ebrei con il nastrino giallo di riconoscimento, i cristiani per spuntare qualche sconto nell’acquisto di carne o tessuti. Vita aperta e scambio quotidiano con tutta la città, il ghetto poteva anche essere visto come luogo di protezione dove si conservava il vero dialetto mantovano del '500 (in uso fino ai nostri anni '60). Poi i portoni furono abbattuti dai francesi e il quartiere piano piano iniziò a scomparire. Ma con la visita guidata da Stefano Scansani riusciamo a ricostruire quello che non c’è più.

All’esterno della Teresiana (uno dei confini del ghetto) troviamo subito una caratteristica importante: il quartiere era circondato da chiese e da istituzioni religiose. Proprio negli edifici della biblioteca, fino alla ex-chiesa della Trinità (ora Archivio di Stato), aveva posto il collegio gesuitico. E in una delle sue parti morì Giovanni dalle Bande Nere, soccorso da un medico ebreo. Perché appunto gli ebrei contribuivano allo sviluppo della comunità mantovana; come Salomone Rossi, madrigalista precedente a Monteverdi. E commediografi, cabalisti, scienziati. Gli edifici rispecchiano perfettamente queste due facce della città: Palazzo della Ragione (e i palazzi comunali adiacenti), dalla parte di piazza Erbe, con il mercato “cristiano”, dall’altra quello ebraico. E tutto confluiva in piazza Concordia, antica piazza dell’aglio, con botteghe addossate le une alle altre che ricoprivano la matildica Rotonda di San Lorenzo. Profumi, odori che ancora adesso possiamo sentire in quelle vie e che un tempo erano davvero sature di cucina kosher, richiesta anche dalle famiglie mantovane cristiane. Commistioni culturali, religiose, culinarie che si compenetravano a vicenda a ridosso delle porte del ghetto. Tutto attorno un tentativo di controllo sociale e religioso. All’interno banchi di pegno aperti ai contadini del territorio, allevamenti di oche, negozi di merceria. E la figura dell’ebreo commerciante, dell’ebreo errante che grazie alle diaspore conosceva i luoghi e metteva a disposizione conoscenze e mercanzie delle più varie. E così ci addentriamo nel quartiere, lungo quella che era via Tubo, via degli Orefici, vicino alla casa del Rabbino. Gli sventramenti di inizio '900 hanno modificato di molto la viabilità, la luce, le atmosfere. La sinagoga maggiore non esiste più, il suo pavimento è diventato quello dell’atrio del Comune di Mantova. Solo in qualche via è rimasta un’eco di quello che era. Edifici altissimi a cinque piani, porte-finestre per poter fare entrare più luce possibile, una mezuzah sull’ingresso di una casa, particolari di origine safardita, l’antico vicolo Regresso, così chiamato perché i carri non riuscivano a girarsi ed erano costretti a fare retromarcia per uscire dopo la consegna della merce. Echi lontani, testimonianze nascoste, resti di una vita ricchissima che a volte ritorna.

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