Il paesaggio è un mostro?
10 9 2022
Il paesaggio è un mostro?

Il ruolo del paesaggio nel contemporaneo e nel futuro

Quale posto migliore per parlare di paesaggio se non un parco? Gli architetti Nina Bassoli (redattrice della rivista Lotus), Annalisa Metta (paesaggista) e Luca Molinari affrontano il tema circondati dal verde di Parcobaleno.

Il dibattito si sviluppa attraverso alcune parole chiave proposte da Molinari: si parte con 'mostro'. Accostare questo termine a 'paesaggio' può sembrare una provocazione, qualcosa che suscita curiosità: i mostri fanno parte dello sgradevole, del moralmente compromesso, mentre 'paesaggio' evoca tipicamente valori positivi. L'associazione però è giustificata da un elemento importante dei mostri stessi, vale a dire la natura doppia. Perché sono creature ambigue, spuntano da una mescolanza di eventi che appartengono a cosmogonie diverse (il dio pan, le sirene, le sfingi, l’uomo ragno), scaturiscono dall’accostamento di cose differenti ed è per questo che hanno caratteri molteplici, irrisolti.

«I paesaggi sono la nostra autobiografia collettiva, e proprio perché ci assomigliano, sono irrisolti come noi che abbiamo le nostre grandezze, fragilità, inadeguatezze e qualità».

I mostri sono il prodotto di cose che apparentemente non hanno nulla a che fare fra loro, umane e non umane; e cos’è il paesaggio se non questo, il luogo dove dimensioni diverse del vivente si trovano a coesistere in un corpo unico, un organismo unitario?

Interessante è anche il carattere inedito dei mostri, di entità che appaiono per la prima volta. Non esistono, quindi ci parlano di una condizione nuova, inconsueta, originale: è in questa declinazione che la storia ha usato i mostri come strumenti dell’arte divinatoria. Nell’antica Roma i mostri insieme ai portenti e ai prodigi erano strumenti per predire il futuro; quando si manifestavano li si interpretava come l’annuncio di qualcosa che stava per accadere.

Anche i paesaggi, letti in questa chiave, possono essere strumenti prodigiosi per immaginare proiezioni future inattese e performanti.

Spesso nelle rappresentazioni di architettura i paesaggi sono disegnati in modo semplificato, sintetizzati per essere contenuti in una tavola grafica che tende a tralasciare la profondità di quello che c’è dentro, sotto il significato del mostruoso e dell’ambiguo, cosa che invece la letteratura riesce a fare in modo spontaneo e forte. La letteratura, la narrativa, ci dicono del paesaggio e ci aiutano a capire la complessità che esso racchiude.

Il paesaggio è un luogo fatto di stratificazioni diverse prodotte dalla natura, dall’uomo, da agenti totalmente incontrollabili, e che ha un suo tempo e una capacità di osservazione diversa. La città è il nostro ambiente naturale, il luogo in cui ci sappiamo orientare, mentre il paesaggio richiede un’attenzione e uno sforzo di osservazione completamente diversi, dove l’elemento fondamentale è il tempo. La dimensione temporale offre un grande insegnamento, un elemento che aggiunto alla parola mostro prova a dare forma a questa idea di paesaggio.

La parola paesaggio richiama idealmente un verbo, un’azione, una condizione di svolgimento nel tempo e fuga ogni dubbio sul fatto che sia una scena, una natura morta; il paesaggio è in quanto agisce, fa qualcosa. Lo scorrere del tempo non è più necessariamente una forza da combattere ma diventa un complice con cui interagire ed entrare in una dimensione progettuale di desiderio e di futuro.

Il progetto paesaggistico lavora sull’energia potenziale delle cose e ci aiuta a parlare del contemporaneo, anche in termini di metafora. Uno dei fulcri del concetto è l’intersezione di sguardi, linguaggi e saperi e in questo, oltre alla letteratura, hanno un ruolo rilevante i fotografi, perché colgono qualcosa che può essere utile a comprendere un’intenzione che non è così direttamente visibile.
Si parla di possibilità, apertura, una dimensione di allentamento e inesattezza che diventa produttiva, una disponibilità all’accadere, il progetto diventa sempre più una costruzione di condizioni utili affinché qualcosa possa succedere. Ne è esempio lampante un ex eliporto di Francoforte, dove la necessità di riconversione a parco ha portato a intervenire semplicemente rompendo il manto bituminoso e lasciare che la natura facesse il resto del lavoro, dopo 10 anni questo è stato il risultato:

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«Si passa dall'idea di un progetto come fatto normativo tipico del ‘900 dove si doveva controllare ogni cosa, al fatto che cominciamo un po’ a rilassarci e infondere nel progetto del paesaggio questa dimensione della casualità e del caso».

Progettare è quindi guardare con forma di responsabilità verso il futuro, un approccio che richiede una dimensione collaborativa e non antropocentrica, una percorso che entra in una prospettiva diversa, la capacità di dilatare il campo per acquisire nuovi strumenti.

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