Il valore politico dell'amicizia
12 9 2020
Il valore politico dell'amicizia

Per una nuova filosofia dell'incontro

Curioso pensare che lo scorso dodici marzo, giornata così cruciale per un cambiamento dei rapporti umani, abbia coinciso con l’uscita del nuovo libro di Pietro del Soldà. Il proposito di Sulle Ali degli amici è infatti quello di rimettere al centro un valore oggi dimenticato nel suo significato più profondo.

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Per accompagnarci fino alle radici della concezione d’amicizia in Occidente, l’autore ci avvicina alla parola philia: termine con cui, nell’antica Grecia, si parlava di amicizia. Dai dialoghi di Platone e di Aristotele emerge con chiarezza come la philia d’allora si discostasse dalle nostre modalità di vivere e intendere l’amicizia. Certo, anche oggi l’amicizia occupa un posto rilevante nella nostra vita. Ma se per noi la “regola dell’amico” si dispiega all’interno di uno spazio ludico, post impegni e che quindi ci richiede leggerezza e lasciarsi andare, per i Greci la philia aveva innanzitutto una valenza politica.

Aristotele è stato il filosofo che più ha messo in luce la centralità dell’amicizia sia per il singolo che per la polis. «È la philia a tenere insieme la città» scrive nell’Etica Nicomachea, e «i legislatori devono tenere in maggiore considerazione questa che la giustizia». Per il filosofo l’essere umano è zoon politikon, un «vivente politico», che al di fuori della città perde le sue ragioni d’esistenza. Le mura della polis sono viste quindi come i confini entro cui l’uomo realizza se stesso. Stare veramente in città vuol dire partecipare alla vita politica in amicizia, ovvero sempre all’interno di relazioni da cui siamo disposti a farci influenzare e con cui siamo pronti a costruire attivamente per il bene di tutti. Nel IV secolo a.C. Aristotele lamenta già, a causa della formazione imminente dell’impero, il tramonto della polis classica e del cittadino pienamente coinvolto nelle attività di governo. Il filosofo intuisce lo stravolgimento delle polis in città troppo grandi, che trasformerebbero inevitabilmente il cittadino in pedina isolata, non più in grado di partecipare in maniera attiva alle decisioni che lo riguardano.
Con la fine dell’età classica e il passaggio all’età ellenistica inizia a consumarsi il divorzio fra politica e amicizia. Il motto di Epicuro «vivi nascosto», fuori dagli affari dello Stato, sancirà definitivamente, qualche decennio dopo, il passaggio.

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La nostra idea di amicizia è erede di questa antica mutazione urbana e del conseguente passaggio filosofico. L’epicureismo non sveste di valore l’amicizia, ma la rilega a uno spazio privato, intimista. Possiamo delineare qui una prima, grande divisione fra spazio pubblico e privato: nel momento in cui le comunità si ampliano, l’individuo inizia a dividere la propria vita fra cittadino e essere umano, rapporti di lavoro e amicizia disimpegnata.

Son forse queste le radici dell’appello diretto che sentiamo oggi risuonare ovunque, a non far politica? A incontrarsi con l’amico per sgravarsi del peso della giornata, per cercare un momento di ebrezza attraverso cui sia possibile far ritorno, il giorno dopo, al dovere?

Se politica e amicizia potessero trovare la via per camminare ancora insieme, il cemento che unisce la comunità non avrebbe bisogno di far forza sulla retorica, oggi tanto in voga, del nemico comune. Il senso di unione deriverebbe da un voler costruire qualcosa di bello, e non dal dover restare uniti per far fronte a minacce esterne. Attraverso rapporti singoli, autentici, in cui l’io è trasportato fuori di sé in quel senso di eccedenza che solo l’altro può farci respirare, sboccerebbe il potere di far rifiorire l’intera polis.

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