L'età di un male territorialmente indiano
9 9 2023
L'età di un male territorialmente indiano

Conoscere la criminalità dell'India oltre i confini dell'Occidente

Saper restituire con responsabilità la verità di una vicenda di cronaca è una delle prerogative di chi si occupa di giornalismo, ma il concetto stesso di verità diventa una categoria sdrucciolevole come base di un’opera di fiction. Con la questione si è confrontata anche Deepti Kapoor, giornalista di origini indiane che ha recentemente dato alla pubblicazione un romanzo noir, L’età del male (2023). In seguito al successo internazionale di pubblico, il romanzo si appresta a ricevere una trasposizione all’interno di una serie tv di produzione americana.

Che cosa accade allora durante il prodigioso incontro tra queste due figure, quella di giornalista e quella di romanziera, in un’unica persona? Come si modifica il modo di raccontare la verità? È una delle molte possibili piste d’indagine che vengono tracciate dall’intervista che lo scrittore Carlo Lucarelli ha preparato per lei durante la loro conversazione al Festivaletteratura: di piste d’indagine siamo inevitabilmente portati a parlare metaforicamente per questo scambio tra i due giallisti, che partono da una comune vocazione di base nella scrittura per poi ampliare la loro riflessione sul potere di rappresentazione della scrittura.

La responsabilità verso la verità è un tema che tocca Kapoor anche nelle sue vesti di narratrice: con L’età del male l’autrice vuole utilizzare la finzione dell’intreccio noir per coinvolgere i suoi lettori in un contesto geografico e storico che lei intende caratterizzare molto specificamente, la sua India. Kapoor intreccia nel suo romanzo le storie di soggetti che sono realistici, perché presi da una realtà da lei sperimentata nel suo quotidiano, durante la sua permanenza in India in età giovanile; dalle storie individuali l’autrice si riannoda a un’unica grande Storia sociale dell’India che è l’innesco del vorticoso e inesausto vortice di quelle storie.

Perché allora utilizzare categorie di lettura occidentali per un romanzo profondamente radicato nella cultura del subcontinente? Dare del libro L’età del male l’interpretazione di “una risposta indiana de Il Padrino” è un atto improprio e semplificatorio, che tende a uniformare e appiattire la complessità di ogni diversità culturale, con un malcelato colonial gaze che in fin dei conti non ha altri obiettivi se non quello di perpetuare un potere costituito dei colonizzatori. Perché quindi dobbiamo sempre cercare di conoscere qualcosa che non conosciamo attraverso solo ciò che conosciamo?

Lucarelli incalza il pubblico con questa domanda, che si apre a un invito a lasciarsi sorprendere dalla scoperta dell’imprevedibile, dell’inatteso, in ultima istanza dell’ignoto: una categoria valida tanto in rapporto a un genere come il noir, dove il fatidico colpo di scena ha sempre un ruolo centrale nello sviluppo, quanto in relazione a un’ambientazione che deve piantare i piedi per non indietreggiare sulla propria rivendicazione di autonomia dallo sguardo pregiudizievole e deformante della cultura occidentale dominante. Per quanto il male attraversi le civiltà e le rappresentazioni che ciascuna di esse ne ha dato in letteratura, nel cinema, nelle arti figurative, non è legittimo approcciarsi a un’altra realtà culturale attraverso semplificazioni che banalizzano la storia vissuta sulla pelle di un popolo ben identificabile. E questa inesattezza rischia di essere non solo un filtro erroneamente premesso a priori alla lettura dell'opera, ma anche un modificatore delle successive evoluzioni dell'opera nella sua vita successiva: in particolare, questa premura riguarda l'imminente adattamento del romanzo in una serie tv prodotta in America, che Kapoor vuole premurarsi che il prodotto conservi la sua specificità indiana, pur raggiungendo i dovuti compromessi per incontrare una grande fruizione di utenti.

L'età del male ci restituisce un quadro di un'India attraversata da laceranti contraddizioni, che sono diventate esponenzialmente più impattanti sulla società a seguito dei conflitti verificatisi durante gli anni Novanta e Duemila della storia del Paese, con un repentino cambiamento politico-istituzionale da una forma di socialismo a una di capitalismo. Leggere il romanzo attraverso le categorie di pensiero che gli sono proprie del mondo indiano significa riconoscere l'inadeguatezza degli stereotipi che l'Occidente gli ha sempre sovrapposto, edulcorandolo come la sede del misticismo per antonomasia. La visione che Kapoor ci apre sull’India è quella di una terra complessa, contraddittoria appunto: qui si tengono insieme mondi polarizzati eppure complementari, quello di una violenza serpeggiante, innescata dalla ricerca di ricchezza e potere, ma anche la speranza di una redenzione di un popolo religiosamente devoto al prossimo, dove la generosità è antidoto della diseguaglianza sociale che imperversa.

In un mondo intimamente corrotto, dove sembra che tutto e tutti possano essere comprati, secondo Kapoor la speranza risiede nell’attendere – prima o poi – la venuta quasi profetica di qualche oppositore del sistema che non si lasci corrompere e si astragga da una pericolosa ideologia politica che ha rivelato la propria inadeguatezza davanti al progetto di costruzione di una democrazia liberale.
Forse allora ha ragione Kapoor a parlare con la cautela di chi si autodefinisce un'«ottimista delusa», che pur nello sconforto costantemente rinnovato di fronte alla situazione specifica dell'India e a quella internazionale, non smette di guardare a tutto ciò che uno scrittore che parla di male non racconta, la metà buona delle cose.

Festivaletteratura