La fotografia come comunicazione e narrazione
11 9 2020
La fotografia come comunicazione e narrazione

Il fotografo Mohamed Keita racconta la sua storia con parole e immagini

Dopo la passeggiata fotografica per le periferie di Mantova, trasfigurata dallo sguardo collettivo della fotografia, oggi Mohamed Keita si fa conoscere per la sua storia. Il racconto della guerra civile e della sua fuga lunga tre anni, a piedi dalla Costa d’Avorio fino a Roma, non trova spazio però nelle sue fotografie, né sul suo viso sempre sorridente. Tuttavia ci offre la possibilità preziosa di metterci nei suoi panni, di passare dall’altra parte dell’obiettivo, di vedere la vita come la vede lui.

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Saper riconoscere e coltivare la propria prospettiva personale è stato per Keita uno dei punti cardine dei tempi passati a Roma, mentre dormiva alla stazione Termini, quando la metropoli rischiava in ogni momento di sopraffarlo. Cercare di restare Mohamed, piantato saldamente nella sua individualità, nel suo punto di osservazione, ma allo stesso tempo adattandosi alle contingenze, alle sfide di ogni giorno. Guardare il mondo da varie prospettive, ma restando fermamente ancorati in se stessi.

La fotografia è anche questo: immortalare un momento per consegnarlo al futuro, per poterlo riguardare poi e riconoscerlo come un pezzo prezioso di sé e della propria storia. Per questo, nei primi difficili giorni romani, la fotografia si è prestata così bene al suo bisogno di narrazione. Sentiva un tremendo bisogno di comunicare, di raccontare il suo vissuto. Nel momento in cui la lingua e le parole non potevano aiutarlo, la fotografia gli ha permesso di trasmettere con immediatezza il suo modo di vedere la realtà e allo stesso tempo di relazionarsi con chi lo circonda, creando un circolo virtuoso di scambi prospettici. Capire come vedono gli altri e far vedere ciò che vediamo agli altri. Diventare visibili.

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Perché in fondo, se la fotografia serve un fine esterno, è proprio questo: costruire relazioni, comunicare. Mohamed non cerca la bellezza nei suoi scatti, vuole documentare le condizioni di chi vive ai margini della società, recuperando storie mai sentite e trovando degli interlocutori pronti ad ascoltarle, anzi, a vederle. Anche in questo senso ci sottolinea l’importanza di progetti incentrati sulla didattica fotografica, come ha fatto con Kena, laboratorio di fotografia organizzato nella capitale del Mali e rivolto a ragazzi giovanissimi, dai 10 ai 18 anni: un luogo di formazione ma soprattutto di partecipazione, che possa fornire gli strumenti per raccontare il proprio vissuto, e dunque gli strumenti per relazionarsi con gli altri. Proprio per questo laboratori simili dovrebbero, auspicabilmente, trovare posto anche in Italia. Troppe storie non hanno mai trovato espressione né interlocutori, troppe storie ci circondano ma sono ancora invisibili ai nostri occhi. Storie che forse aspettano solo uno scatto giusto al momento giusto, per diventare finalmente visibili.

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