Lo schema sotterraneo «per raccontare i cazzi propri»
9 9 2023
Lo schema sotterraneo «per raccontare i cazzi propri»

Paolo Giordano, Walter Siti e l’autofiction

Quello dell’autofiction è un genere insidioso per noi lettori: quando il protagonista del romanzo che stiamo leggendo non solo si esprime in prima persona, ma si chiama proprio come l’autore del nostro libro, siamo portati a credere che effettivamente sia lui a raccontarsi e che ogni dettaglio che descrive sia accaduto per davvero. Ci dimentichiamo, pagina dopo pagina, che non si tratta di un’autobiografia, ma di una fiction: letteralmente, di una finzione.

Sul palco di Festivaletteratura, Federica Velonà si confronta a tal proposito con due tra i più grandi scrittori di questo genere controverso. Anche se appartengono a generazioni diverse e nei loro libri non trattano quasi mai gli stessi temi, nessuno meglio di Paolo Giordano e Walter Siti, due premi Strega, poteva essere interpellato per fare luce sulle ambiguità dell’autofiction.

È stato proprio Siti, nel 1994, ad introdurre questo genere nel panorama letterario italiano. Nell’elaborare il suo primo romanzo, Scuola di nudo, per dodici anni ha visto contrapporsi l’urgenza di «tirare fuori i rospi» che covava dentro di sé e l’intima vergogna di raccontare ciò che lo riguardava. Ecco quindi l’idea di prendere tutti i «tic formali» dell’autobiografia e di adattarli a una storia che non era la sua, di prendere un elemento che riconosceva in sé e portarlo all’estremo, di usare una prima persona catartica che, allo stesso tempo, era e non era lui.

È questo infatti «lo sforzo di chi fa autofiction»: mettere dentro a una storia minuziosi dettagli falsi pur di tirarne fuori qualcosa di universale, pur di «trovare uno schema sotterraneo adatto per raccontare i cazzi propri».

Paolo Giordano invece approda nell’autofiction con il suo quinto romanzo, Tasmania, il cui protagonista è uno scrittore (proprio come Giordano) laureato in Fisica (proprio come Giordano) sulla soglia dei quarant’anni (proprio come Giordano) alle prese con un libro sull’atomica che proprio non riesce a scrivere. Prima della pandemia, Giordano non aveva mai assunto prime persone che assomigliassero biograficamente a lui, provando una sorta di «pudicizia nel mettersi in campo in quanto scrittore». Il pericolo dell’autocompiacimento era troppo vicino.

Quando però le sue letture, tra un report epidemiologico e l’altro, smettono di riguardare la narrativa d’invenzione e si concentrano tutte sulla saggistica, non può che avvicinarsi, timidamente e con molto sospetto, «all’idea di scrivere con una forma che sembri una testimonianza fattuale vera e propria». Abbracciata quindi l’autofiction, decide di diventare il soggetto delle sue stesse finzioni narrative, nonostante il sospetto di condurre una vita tiepida e poco interessante non smetta mai di inseguirlo: al contrario del collega, tratta con diffidenza e pudore l’idea di «raccontare i cazzi propri», della cui straodinarietà è poco convinto.

Ma è proprio in questo spiraglio di svergnogatezza che sta l’aspetto più dirompente e politico dell’autofiction: un conto è mostrare, attraverso la pura finzione, delle zone scomode e buie, un conto è dirle esplicitamente e in prima persona. «Realismo è sporgersi» ha sostenuto Siti in passato. Ma il realismo di cui si deve avere il coraggio di scrivere nell’autofiction non è solo il racconto dettagliato della vita spicciola delle persone, quella è tutta «schiuma»: sta piuttosto nelle profondità buie e scomode che l’autore condivide con il mondo attraverso una storia che non è la sua, ma che solo uno stuntman può affrontare.

In effetti, per girare le scene pericolose della nostra intimità a volte serve una controfigura. Soprattutto se scrivi «di tutto quello che ti ha fatto piangere», come Paolo Giordano. Soprattutto se scrivi «di tutto quello che ti ha fatto tremare» come Walter Siti.

Soprattutto se cerchi, in ogni pagina che scrivi, di conciliare quello che sai essere importante con quello che sei intimamente in grado di scrivere. Soprattutto se cerchi, in ogni pagina che scrivi, di stanare inconsapevolmente quello che ancora non sai di te stesso e della società in cui vivi.


Qui l'intervista realizzata a Paolo Giordano dai volontari della Redazione di Festivaletteratura:

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