Mantova per me
12 9 2021
Mantova per me

Il commento di Beppe Finessi, alla fine della XXV edizione di Festivaletteratura

Anche quest'anno Festivaletteratura ha chiesto a un autore presente a Mantova un commento a caldo sulla venticinquesima edizione che si sta per chiudere. Seguendo la vocazione aperta ed eclettica con cui il Festival ha sempre inteso la letteratura – un costante dialogo tra discipline e linguaggi diversi – quest’anno la scelta è caduta sull’architetto, curatore e critico Beppe Finessi, animatore al Festival di innumerevoli incontri legati all’arte, all’architettura e al design.

Immagine: la cartolina di annuncio della XXVI edizione (7-11 settembre 2022), progettata da Giorgio Camuffo


Quest’anno infrangerò la sana regola (Greta docet) di arrivare in treno. Ma sento proprio il bisogno di stupirmi, come sempre mi accade, quando in automobile, dopo le ultime curve, si inizia ad intravedere il Ponte di San Giorgio e con lui, soprattutto, si scorge quasi d’un tratto l’immagine della città, sempre magica e sorprendente, come la visione di un arcobaleno. Durante gli 800 metri del ponte guido ancora più piano del dovuto, per allungare il più possibile quel tempo, pensando alla storia che mi attende, alla magia della corte dei Gonzaga, a Giulio Romano, e a quel tipo di primati tra architettura e pittura che oggi sembrano impossibili, mentre l’emozione, e la sensazione, sono quelle di entrare in una cartolina (chissà se si usano ancora?). Il Festival compie 25 anni, proprio volati d’un fiato, e anch’io come molti lo seguo dagli inizi, da quando vent’anni fa ho iniziato ad ascoltare le conferenze dedicate al mio mondo, quello del design, dell’architettura e delle arti visive, godendomi allora le acrobazie di Achille Castiglioni e riflettendo sulle visioni suggerite da Paola Antonelli.

Ricordo di lì a poco, per generosità degli amici del Festival, l’inizio di un privilegio diretto, quello di poter accompagnare e dialogare per il pubblico con alcuni giganti: da subito una vera e propria lectio magistralis di Angelo Mangiarotti, che aveva personalmente ordinato per settimane le immagini (in forma di vecchie diapositive 6x6 scattate con la sua Rolleiflex) per dare forma a un’idea di “Partecipazione”, dove coniugare architettura e politica, design e antropologia, scultura e sociologia, sempre pensando alla “gente” non come semplici “fruitori” ma come “attori protagonisti”.

Ricordo Alessandro Mendini emozionato e incisivo al contempo, e che una volta concluso il suo intervento, prima di lasciare Mantova, aveva voluto essere accompagnato nel migliore negozio di pasta fatta in casa (non dirò quale: tanto qui sono tutti buoni) per fare le provviste per la famiglia. Ricordo Lisa Ponti, figlia del grande Gio, venuta a Mantova accompagnata dalla sorella Giovanna (vedova di Alberto Rosselli, tra i padri del design italiano), tutte e due splendide ottantenni, e che una volta arrivate a Mantova si erano rese conto che Giovanna aveva dimenticato il rossetto (!), per lei imprescindibile, e così Lisa e noi l’abbiamo attesa seduti su una panchina per decine di minuti mentre lei, Giovanna, serena e felice, in tutta calma, provava in un negozio di cosmetici quello col punto di colore più giusto.

Ricordo le telefonate di trepidazione della sua casa editrice, preoccupata che il centenario Gillo Dorfles fosse “gestibile” e disponibile alle domande del pubblico e della stampa, ma anche l’affabilità dell’irraggiungibile critico quando a pranzo gli si avvicinò una sua conoscente dell’altro secolo che gli parlò del loro comune amico Italo Svevo, sciogliendo la tensione di tutti mentre lui (Gillo) pasteggiava tranquillamente a birra (fredda).

Ricordo la sottile filigrana delle opere di Stefano Arienti, la poesia delicata dei gesti di Andrea Anastasio, il design tra ingegno e impegno di Giulio Iacchetti, e quel fiume in piena di Patricia Urquiola baciata da talento e gran gusto.

Ricordo la vera e propria performance di Riccardo Blumer che sfidava e sondava le caratteristiche meccaniche dei materiali facendo salire il pubblico (davvero) su file ordinate di uova.

E ricordo in anni recenti, dopo crisi e pandemie, la profezia di Mirko Zardini che dall’alto della sua statura intellettuale, e contemporaneamente da un balcone affacciato su piazza Santa Barbara, ci istruiva con le nuove coordinate necessarie e indispensabili per vivere nelle città di domani.

Ma tra le cose che oggi mi commuovono, penso al Teatro Bibiena, che per “felici coincidenze” (Alighiero Boetti) è stato il palcoscenico che ci ha accolto molte volte (con i volontari sempre affidabili, e una giovane Martina sempre “padrona” di casa impeccabile), dove una decina di anni fa ho ascoltato un’inesauribile Enzo Mari, col regalo di essere in platea al fianco di sua moglie, la più brava critica d’arte degli ultimi 100 anni, Lea Vergine, commentando con lei del buon umore del marito, trasformato forse dall’essere da poco diventato nonno.

So già che nei mesi successivi al Festival mi ritorneranno spesso in mente questi giorni, quando gli amici degli amici sono venuti a portarmi un saluto dopo un incontro, una presentazione, una tavola rotonda, con una familiarità non ritrovabile altrove.

Nei giorni passati a Mantova cerco di godermi anche la città, e di non perdermi mai la delizia della Camera degli Sposi e la quadratura del cerchio della Casa del Mantegna, così come non manco di percorrere il “passaggio laterale” che mi porta direttamente a Sant’Andrea, che per noi architetti è Sant’Alberti. Ma poi non trascuro il caffè speciale (ma proprio speciale) vicino alla libreria, la brioche sotto i portici di fronte al negozio di vestiti, quella trattoria dove i tortelli sono serviti nei pentolini di metallo, quel ristorante sofisticato con una mirabile collezione di quadri del Novecento alle pareti, e la sbrisolona mangiata ovunque, perfino all’edicola. Anche se i pranzi più belli sono stati negli anni sempre quelli alla mensa del Festival, in tavolate casualmente collettive, e che oggi sono una delle sottrazioni più tristi di questa pandemia.

E poi – deformazione professionale, lo ammetto – della Mantova di questi giorni apprezzo anche gli elementi di un sistema di comunicazione coordinato efficace e non ingessato, figlio dei primi pensieri maturati allora da Marco Ferreri, allievo prediletto di Bruno Munari, che per primo diede forma a un progetto di identità con segnaletica, stendardi, manifesti e perfino seggiole disegnate ad hoc. E mi sento rassicurato dalla presenza delle magliette blu dei giovani volontari del Festival, commoventi nella loro disponibilità, armati di un sorriso in più. E spero sempre di trovare la taglia giusta della maglietta che il Festival mi farà trovare nella “borsina” in albergo, disegnata ogni anno da un illustratore sempre diverso, maglietta che mi accompagnerà come i ricordi di cui sopra per tutto l’anno, fino alla prossima volta (nel cassetto dove le conservo la mia preferita è quella segnata dalla mano leggendaria di Giancarlo Iliprandi).

Intanto, quest’anno, per questo bel traguardo dei suoi 25 anni, il Festival mi ha regalato una coppia di professori brillanti – Emanuele Coccia e Luca Molinari, con Marco Filoni a discutere con loro –, capaci di parlare con ritmo filante cercando gli occhi del pubblico, che hanno discusso in modo ampio dei cambiamenti dei confini tra pubblico e privato, della casa come sinonimo di felicità e di come l’architettura e l’urbanistica dovranno saper interpretare i nuovi tipi di relazioni (anche sentimentali) che si stanno sempre più configurando. E poi un duo di creativi-teorici, Peter Mendelsund e Riccardo Falcinelli, che in un ping pong a distanza (grazie Zoom!) si sono interrogati, facilitati da una traduzione simultanea efficace e professionale (grazie Peter Mead!) sulla forza delle immagini, su come immaginare le immagini, su come costruire le immagini, partendo dalle parole. Sarà forse perché coincide con l’inizio dell’Anno Accademico del mio amato Politecnico, ma per me l’anno non comincia a gennaio, ma questa seconda settimana di settembre, quando, dopo la pausa estiva, vengo a Mantova per il Festivaletteratura.

Buon anno!

Beppe Finessi

Festivaletteratura