Perché l'uomo ha un abito e la donna centomila?
9 9 2017
Perché l'uomo ha un abito e la donna centomila?

Benedetta Barzini esplora il rapporto tra corpo, abito e moda.

«Perché l’uomo ha un abito e la donna centomila?». Si apre con questa domanda l’incontro di Festivaletteratura intitolato Io (abito) con Benedetta Barzini, fotomodella che da giovanissima fu musa di Ugo Mulas, Salvador Dalì, Andy Warhol, oggi giornalista e antropologa della moda, e Gabriele Monti, docente dell’università IUAV di Venezia, autore del saggio In posa. Modelle italiane dagli anni Cinquanta a oggi (Marsilio, 2016).

«Perché la donna con i suoi mille abiti non è identificabile, quindi diventa invisibile. Quello che conta in questo mondo è la giacca» risponde Barzini. Cita lo studioso Bernard Rudofsky e il suo Il corpo incompiuto (Mondadori, 1975) e ci ricorda che la moda è un sistema che costringe il nostro corpo a modificarsi e che sono più spesso gli abiti ad addomesticare il nostro fisico che il contrario.

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Benedetta Barzini in Mila Schön fotografata da Ugo Mulas nel 1969

Il suo è un excursus nella storia sociopolitica della moda. In antichità gli uomini si vestivano per andare al cospetto degli dei: travestimento, mito e rito andavano di pari passo. Poi Dio è sceso in terra e gli abiti hanno iniziato a diventare strumento del potere temporale. La raffinatezza nel vestire si associava all’aristocrazia, solo i contadini all’epoca avevano degli abiti funzionali al proprio mestiere. Con l’affermarsi della borghesia, infine, si impone l’uso maschile della giacca (non a caso definita “l’uniforme borghese”) e il colore scuro: espressioni del rigore e della non ostentazione tipiche della Riforma Protestante. E chi ha imposto lo stile di questa giacca dal Settecento a oggi? Ovviamente l’Inghilterra, perché è stata per secoli la massima potenza globale.

«Armani si è dedicato per oltre quarant’anni a disegnare la giacca, e questo è sintomo di autenticità. Ha fatto delle cose bellissime, è un talento, ma non ha cambiato le cose. Nessun stilista può davvero cambiare lo stile dell’uomo».

Perché lo stile dell’uomo è espressione di un potere precostituito, di un sistema patriarcale che in qualche modo vuole ancora che le donne si limitino a piacere e compiacere, afferma Barzini. Solo il tempo può agire su questo sistema, come è successo nel caso americano del “Casual Friday" negli anni Novanta, quando gli impiegati americani hanno iniziato a vestirsi in modo meno formale in ufficio il venerdì, perché già proiettati al weekend, e dal “completo” sono riusciti a passare allo “spezzato”.

«La moda femminile sì che è stata rivoluzionata nel tempo, - dice Barzini - da Dior per esempio. Perché? Perché dopo la guerra, momento storico in cui le donne erano per la prima volta andate a lavorare, bisognava riportarle in casa. E allora cosa si fa? Vitino stretto e gonna ampia, come agli inizi del Novecento. Dior forse non l’ha pensato in questi termini, ma è quello che ha fatto».

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Il celebre Tailleur Bar presentato da Dior nel 1947

Neanche i grandi designer che Monti cita come esempi di sperimentazione nella moda maschile, uno fra tutti Raf Simons, o vari esponenti della cultura queer che ripensano la femminilità e si ispirano a modelli meno convenzionali (il professore pensa a icone come Joan Crawford o Bette Davis) sono per Barzini una vera svolta. Per lei il concetto di genderless è fine a se stesso e lo sarà finché non saremo in grado di comprendere cosa sia l’identità di genere, spogliata di tutti gli stereotipi di cui l’abbiamo sommersa nel corso della storia.

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Un modello Raf Simons Spring 2018 Menswear

«Gli stereotipi sono rassicuranti rispetto all’ansia che impone la ricerca della natura umana». Per questo anche la parte più emancipata della società femminile usa i brand come amuleti con cui affermare il proprio potere e diventa vittima di quello che impongono le riviste di moda. «Quando lavoravo come modella ho imparato ben presto che tutti i "Divine! Amazing! Fantastic!" dei miei assistenti e collaboratori non erano complimenti rivolti a me, ma al loro lavoro su di me: il trucco, la pettinatura, l’abito, le pose. Non sono mai stata innamorata della mia immagine, questo mi ha salvato e mi ha mantenuto autentica». Concetti che Benedetta Barzini ha cercato di raccontare metaforicamente nel romanzo del Storia di una passione senza corpo (Frassinelli, 1992) e poi nella corso della sua vita attraverso lo studio, l’analisi e l’approfondimento del mondo della moda.

«La bellezza è la cosa più noiosa che ci sia, l’unica cosa bella è l’autenticità. Ancora adesso quando mi chiamano per dei servizi io non lascio che mi mettano nulla in faccia: vogliono me? Bene, sappiano che somiglio a uno scoglio e sono uno scoglio!».

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Benedetta Barzini sfila in Antonio Marras nel 2015


Se volete approfondire ulteriormente potete trovare qua sotto l'intervista rilasciata a Festivaletteratura

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Festivaletteratura