Quando le distanze avvicinano
11 9 2020
Quando le distanze avvicinano

Incontrarsi da remoto

Ore 10.05. Computer acceso, sito 2020.Festivaletteratura.it aperto, evento Consapevolezza verde. Noi e gli animali in primo piano. Non ho mai partecipato a un festival da remoto. E non so bene che cosa aspettarmi.

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Tutto a un tratto, una voce. Spedita, chiara e sicura. Calda e coinvolgente. Si tratta di Paolo Pecere, autore di saggi intorno a natura e coscienza e di romanzi, il quale ci introduce in modo semplice a un argomento quanto mai complesso e affascinante: la coscienza negli animali. Questi possono provare simpatia e antipatia? Sono capaci di empatia nei confronti di altri essere viventi? La scienza ci dice ormai, con sufficiente certezza, che sì, gli animali provano tutto questo – così ci informa Matteo De Giuli, co-conduttore, insieme a Nicolò Porcelluzzi, di Consapevolezza verde. Tuttavia, in questo scenario abbastanza delineato, è importante ricordare che tutto parte dal nostro particolare punto di vista, dal nostro modo di vedere il mondo.

Da qui la necessità di conoscere la biologia di ciascuna specie e di capire i preconcetti che, a volte in modo inconsapevole, proiettiamo sugli altri. Paolo Pecere ricorda, a questo proposito, alcuni libri in cui il tema del rapporto uomo-animali viene toccato: Io e Mabel di Helen Macdonald (Giulio Einaudi editore, 2016) e Gli anni, i mesi e i giorni di Yan Lianke (Nottetempo, 2019). Il primo romanzo narra di Helen Macdonald e della sua depressione a seguito della morte del padre. Isolamento, rabbia, incapacità di agire e di reagire, relazioni perverse e sabotaggi. Tutte esperienze che la nostra protagonista fa sue fino a dimenticare se stessa e la propria identità. Un giorno, una rivelazione: addestrare un falco. Per la precisione: un astore, il rapace più feroce di tutti.

Sembra la scelta giusta, quello che aiuterà Helen ad uscire dal gorgo in cui è finita prigioniera. Tuttavia, più passa il tempo e più la protagonista si rende conto di essere diventata molto simile a Mabel, il falco: distaccata, all’apparenza invulnerabile, come se un muro invisibile l’avesse separata dal resto del mondo. In questo quadro drammatico, a complicare le cose rientra anche l’ineluttabile alterità dell’animale, che è in fondo qualcosa d’altro, di diverso, di incomprensibile. Un po’ come in tutti i rapporti umani, Mabel non è Helen, così come Helen non può essere Mabel. Dopo questa presa di consapevolezza, arrivano il riscatto della donna e il lento cammino verso una vita che sia umana fino in fondo perché «le mani umane sono fatte per tenere altre mani» e non, o almeno non solo, un guanto da falconiere.

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Il secondo libro citato, Gli anni, i mesi e i giorni, contiene due romanzi brevi. Nel primo di questi ci troviamo sui Monti Balou, catena immaginaria della provincia cinese di Henan. Qui la siccità si è abbattuta con particolare violenza: nessuna pietà per una piccola pianta di granoturco che con fatica cerca di restare in vita. Soltanto un anziano e il suo cane si battono affinché la pianta sopravviva. L'autore non fa in tempo a terminare il proprio resoconto che sono già su Google per una breve consultazione dei titoli che l’autore ha tanto elogiato. La consultazione termina in modo drammatico: ora nella mia lista di “libri da leggere assolutamente” si sono aggiunte altre due voci e credo di non sbagliarmi nel sostenere che Helen Macdonald e Yan Lianke diventeranno presto parte della pila di libri che ancora mi aspetta, non letta, dal lontano 1995.

A questo punto, Paolo Pecere esprime un concetto su cui mi è sempre piaciuto riflettere: «In filosofia bisogna cercare le parole giuste». Penso che le parole giuste siano la base della filosofia: la scienza ha delle parole ormai accettate dalla comunità scientifica per identificare in modo preciso e univoco qualsiasi elemento proprio di quella particolare scienza. In filosofia bisogna invece ricercare in modo continuo un consenso, un accordo. In fondo, ricordo a me stessa che le parole sono sempre un costrutto sociale, frutto di una decisione arbitraria, ma non per questo risultano meno importanti per significare il mondo, cioè per dargli una forma, una realtà intellegibile e, da ultimo, un senso. Un significato, appunto.

L'autore parla di un qualcosa che accomuna un po’ tutti gli esseri umani: la difficoltà che spesso si ha nel capire gli altri. Certo, risulta ostico intuire il pensiero di un pappagallo, ma è altrettanto complesso comprendere un essere umano diverso da noi. Questa alterità, questo essere “altro” si riallaccia ad argomenti purtroppo attuali quali il bullismo e la discriminazione. La difficoltà di mettersi nei panni degli altri, di capirne i comportamenti e le attese, fa sì che la soluzione più semplice risulti quella della fuga o, se questa non è possibile, dell’allontanamento di ciò che non riusciamo a comprendere.

La parola “comunicazione” deriva dal latino communis, cum – con – e munus – parola dal triplo significato: dono, incarico, dovere. Se non c’è condivisione, allora non si può parlare nemmeno di comunicazione. E l’impossibilità di capire l’altro, che si tratti di un animale, di un neonato, di un sordomuto, di uno straniero, fa sì che l’altro diventi, in automatico, anche diverso, e perciò potenzialmente pericoloso. Bisogna insomma mettersi in ascolto. Un ascolto profondo, vero, aperto e interessato nei confronti di coloro che non parlano la nostra lingua o che non parlano proprio, ma che comunque comunicano, cioè mettono in comune con noi il loro essere.

Concludo questa riflessione con il racconto La spirale di Italo Calvino. Contenuto nelle Cosmicomiche, il racconto narra di un innamoramento e della volontà, da parte del protagonista, di differenziarsi dai suoi simili per conquistare l’amata. Nelle parole del narratore: «Mi ero insomma innamorato. Vale a dire: avevo cominciato a riconoscere, a isolare, i segni di una da quelli delle altre, anzi li aspettavo, questi segni che avevo cominciato a riconoscere, li cercavo, anzi rispondevo a questi segni che aspettavo con altri segni che facevo io, anzi ero io a provocarli, questi segni di lei ai quali io rispondevo con altri segni miei, vale a dire io ero innamorato di lei e lei di me, cosa si poteva desiderare di più dalla vita?».

Una storia abbastanza scontata fin qui, se non che il protagonista innamorato di cui stiamo parlando è niente meno che un mollusco. «Attraverso quel tanto di suo inconfondibile che restava in soluzione nell’acqua marina e che le onde mi mettevano a disposizione, ricevevo una quantità di informazioni su di lei che non potete immaginare: non le informazioni superficiali e generiche che si hanno adesso a vedere e a odorare e a toccare e a sentire la voce, ma informazioni dell’essenziale, sulle quali potevo poi lavorare lungamente d’immaginazione. La potevo pensare con una precisione minuziosa, e non tanto pensare lei come era fatta, che sarebbe stato un modo banale e grossolano di pensarla, ma pensare lei come da senza forma qual era si sarebbe trasformata se avesse preso una delle infinite forme possibili, restando però sempre lei». Una delle più belle dichiarazioni d’amore di sempre. Non male per essere frutto del – Calvino mi perdonerà la licenza poetica – “pensiero” di un mollusco.

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Il Festival da remoto mi offre la possibilità di assentarmi un po’ per mangiare a casa mia. Certo, il panino portato da Milano non mi manca di certo, ma l’ottima cucina mantovana decisamente sì. Devo ammettere però che casa propria ha, quando si è fortunati abbastanza, un buon sapore. Sa di qualcosa di conosciuto, di familiare appunto. Mi coccolo in questi pensieri. Poi alzo lo sguardo: le 14.00. È ora di tornare al lavoro! Blink! – lampi d’arte tra le righe mi aspetta sul PC che acceso, carico e – strano ma vero – funzionante, è pronto per accompagnarmi in questo viaggio fatto di parole ascoltate, rielaborate e scritte, di una compagnia che non pensavo un Festival da remoto mi potesse tenere, e di un senso d’appartenenza intenso, vivo e partecipe che quasi mi sembra di essere lì, a Mantova, tra le persone che ogni anno animano Festivaletteratura.

Ecco Claudio Musso, conduttore di Blink!, con Morra MC, Maura Pozzati e Luca Trevisani. Partiamo subito sentendo la voce di Luca Trevisani, artista visivo attivo tra Italia e Germania, e noto per il progetto Raymond, un omaggio al poeta Raymond Roussel (Parigi, 1877 – Palermo, 1933). Visionario, onirico, eccentrico e geniale come solo i grandi artisti sanno essere, il dandy Raymond è oggi considerato il padre della letteratura potenziale e di quella combinatoria, nonché anticipatore del surrealismo. Di Raymond Trevisani coglie il lato più paradossale, ricordandone i numerosi giri del mondo compiuti senza mai scendere dalla nave: come se per conoscere un Paese non fosse necessario toccarne il suolo. Bastano i profumi, i rumori, le chiacchiere delle persone al molo, gli animali sotto e sopra la propria imbarcazione. Ecco che l’arte di Trevisani ha la necessità di essere altrettanto paradossale: da qui nasce l’idea di una «scultura talmente grande da non poter essere vista». A Palermo, nel Grand Hotel et Des Palmes dove Raymond è deceduto, la mostra dell’artista diviene infatti un tutt'uno con l’ambiente: «tu entri nell’arte, l’arte entra in te» e ti cambia.

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Uno degli aspetti migliori di un festival da remoto, oltre alla possibilità di restare in pigiama, per i più pigri, e di mangiare indisturbati durante gli eventi, per i più golosi, è la libertà di fare subito ricerche. Il computer è lì, davanti a te, e sembra dirti: «Che aspetti ad andare a vedere delle foto?». E così, trascinata dalla mia inguaribile curiosità, ho fatto. Un modo eccezionale per scoprire tutto un mondo a me prima sconosciuto.

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Luca Trevisani parla anche di «ostacoli» che l’artista stesso si dà perché possa superarli e, direi io, sublimarli nell’arte: uno di questi è la letteratura. Di essa, Trevisani afferma: «La letteratura ci fa capire chi siamo». Mi viene qui in mente il Daniel Pennac di Come un romanzo quando parla degli “altri”, di quelli che «si credono stupidi… Privati per sempre dei libri… Per sempre senza risposte… E ben presto senza domande», impossibilitati a capire il mondo che li circonda e loro stessi. Con l’idea di rilanciare Raymond Roussel, l’artista decide di non far realizzare un catalogo della mostra ma di scrivere un libro vero e proprio. A differenza dei quadri, afferma Trevisani, i libri non hanno un tempo limitato in cui mettersi in mostra. Sono lì per sempre. Per te e per tutti coloro che avranno il coraggio di porre loro delle domande. «I libri hanno un’energia pazzesca. […] Le frasi che leggi ti restano addosso». Io non solo non posso che concordare con quanto detto dal nostro, ma aggiungerei una piccola riflessione. Le frasi fanno di più che restarti addosso ti restano dentro, diventano una parte di te e plasmano così la tua identità.

A questo punto vorrei prendermi una piccola pausa per riflettere un po’ su quanto ho ascoltato finora. Così esco a fare una passeggiata: camminare mi aiuta a mettere in ordine i pensieri e cancella persino la patina di tristezza che a volte affievolisce le mie giornate. Mentre passeggio nella campagna lombarda, appena alle porte di Milano, mi rendo conto che le voci di oggi risuonano ancora nella mia testa e, appena vedo una mia cara amica venirmi incontro, non vedo l’ora di raccontarle degli incontri di oggi. Incontri virtuali, ma pur sempre incontri. Manteniamo le distanze, eppure sento la mia amica vicina quando le racconto di Raymond Roussel, un autore a me del tutto sconosciuto prima d’ora. Nemmeno lei ne ha mai sentito parlare, mi conferma. Ma andrà a leggere qualcosa. Mi sento rassicurata nel sapere che, nonostante il distanziamento sociale, il lungo tempo trascorso a casa e la paura di un futuro più incerto che mai, in fondo continuiamo ad allargare i nostri orizzonti, a guardare sempre un po’ più in là, oltre il nostro piccolo, e spesso insignificante, giardino, e a sognare in grande. Credo che niente, meglio della letteratura, possa aiutarci in questo.

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Torno davanti al PC: stessa stanza di prima (la mia piccola camera), stessa postazione di prima (scrivania e sedia girevole). Ora ho però una consapevolezza in più: gli autori di Festivaletteratura, d’ora in poi, mi accompagneranno ovunque andrò. Poi la mia mente fa voli pindarici e mi rendo conto che gli autori possono uscire anche in senso letterale. Ecco che ora mi trovo sul balcone. Primo piano, vista su campetto da calcio e parco giochi; a fianco, vicini intenti a raccontare gli uni agli altri l’ultimo viaggio compiuto. Potrebbe non sembrare il posto più rilassante del mondo, eppure per me lo è. Perché qui posso unire il mio bisogno di riflessione e distacco con la necessità di aprirmi agli altri. In uno stesso momento posso condividere tutto ciò che sto scoprendo durante quest’edizione e imparare da chi mi circonda. Non è forse questa la base di ogni insegnamento che non sia mero nozionismo? Un confronto continuo tra ciò che già sappiamo e ciò di cui ancora non siamo a conoscenza ma su cui gli altri possono aprirci finestre rimaste fino ad ora sprangate.

La sera cala, fuori è già buio ed è ora di cena. Le parole del cibo, condotto da Amalia Sacchi e con Lorenzo Mori, capita al momento giusto. Sono davanti al pc, di nuovo in casa, e consumo la mia cena mentre l'evento conduce tutti gli ascoltatori della radio nel mondo dell’antropologia attiva. Lorenzo Mori, classe ’73, è direttore del centro di performing art Riverrun che, ad opera dello stesso Mori, diviene in poco tempo un hub di innovazione culturale in cui dar vita a progetti dal forte impatto sociale.

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Dalla collaborazione tra Riverrun Hub e Sineglossa nasce una collana editoriale, Nonturismo, pubblicata da Ediciclo Editore, in cui escono titoli dedicati ai luoghi marginali, insoliti, non toccati dal turismo gastronomico tanto di moda ai nostri giorni.

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Il lettore ideale cui la collana è indirizzata viene a coincidere con la figura del viaggiatore. A differenza del turista, il viaggiatore «domanda, osserva, segue le deviazioni che la sua sensibilità gli suggerisce durante il cammino». In particolare, Lorenzo Mori sottolinea come dare un nome preciso a questa figura vorrebbe dire etichettarla, renderla uno stereotipo e ricadere così nella logica del turismo. L’idea di Nonturismo sta proprio nella sperimentazione di nuove pratiche: «Si sa da dove parte ma non dove va».

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L’ultimo evento che seguo nella giornata di oggi è La mezz’ora del delitto. Con la conduzione di Marco Malvaldi e Davide Ruffinengo, la diretta riguarda l’esordio al romanzo di Simona Tanzini con Conosci l’estate? (Sellerio, 2020). I conduttori sottolineano due peculiarità di Viola, la protagonista del romanzo: la sinestesia, ossia l’associazione di note musicali e volti a determinati colori, e l’amore per la precisione delle parole. E se è vero che ogni termine rappresenta tutto un mondo, anche interiore, diventa essenziale trovare il termine esatto, quella parola – e solo quella – che può esprimere ciò che abbiamo dentro.

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Il mio Festivaletteratura, per oggi, si conclude qui. Si conclude con il termine che per me meglio rappresenta questa fantastica esperienza: incontro. Sì, avete capito bene. Incontro anche se ho seguito gli eventi da remoto, da lontano, da un’altra città. Perché, in fin dei conti, di questo si tratta quando si parla di letteratura: un incontro tra chi ha scritto il libro, chi ha lavorato e ancora lavora per renderlo fruibile e il lettore. Come ha scritto Carlos Ruiz Zafón: «Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai». Oggi sento che nuovi libri e nuove idee appartengono un po’ anche a me.

Festivaletteratura