Il secondo capitolo del reportage inedito di Jo Meg Kennedy, selezionato dalle giurie di Meglio di un romanzo per uscire a puntate sul sito del Festival e su "Q Code Magazine"
Questa è la storia di Radio Fresh Fm, nata a Kafranbel, Idlib, in Siria nel 2013. Ad accompagnare il lettore nella costruzione ed evoluzione della radio e nei processi di trasformazione dovuti alla rivoluzione e alla guerra saranno le voci dei fondatori della radio e il controcanto della giornalista Zaina Erhaim. I presupposti con cui Raed Faris, Hammoud Jounin e Khaled al Essa avevano fondato la radio e si sono battuti per difenderne l’esistenza, sono gli stessi per cui avevano aderito alla rivoluzione. Nelle parole di Raed Fares “le rivoluzioni sono idee e le idee non possono essere uccise con le armi”. La radio rappresentava queste idee e si poneva a disposizione e a rappresentanza della cittadinanza. Sono stati diversi i tentativi, del regime come di altri attori, di mettere a tacere la radio, ad oggi però continua ad emettere e a rappresentare la voce del popolo della rivoluzione siriana.
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CAPITOLO SECONDO: CITIZEN-JOURNALISTS
di Jo Meg Kennedy
Nel 2013 nasce Radio Fresh a Kafr Nabel, Idlib. Una radio unica nel suo genere (Enab Baladi, 2019), sebbene nel Paese stessero proliferando molte altre radio in opposizione ai media di regime, tra cui a Idlib nel 2014 Radio Alwan, fondata dallo studente di giurisprudenza Ahmad al-Qadour (Amandas ONG, 2017). Con lo scoppio della guerra, si rese necessario riempire un vulnus informativo, che si era creato per via della legge emergenziale del 1964, che vietava la nascita di media indipendenti. Nel 2011 si creò lo spazio per farlo grazie all’utilizzo delle più o meno nuove tecnologie.
Radio Fresh all’inizio, non si occupava di giornalismo – per quello esisteva già il neo-nato Centro Mediatico di Kafr Nabel – ma faceva da cassa di risonanza alle comunicazioni della resistenza per proteggere i civili dagli attacchi del regime. Dai primi mesi del 2012 le campagne di Idlib erano state liberate passando sotto il controllo delle forze di opposizione (De Angelis E., Badran Y., 2016), inaugurando per il resto dell’anno ulteriori scontri per la liberazione di tutto il governatorato. All’inizio del 2013 l’esercito siriano lasciò ufficialmente Kafr Nabl e il resto della provincia con due implicazioni importanti. In primis la ritirata dell’esercito del regime lasciò un vacuum di potere che sarebbe stato conteso da diversi attori dalla fine del 2013, tra cui Daesh ("The Syrian Observer", 2018). In secondo luogo, incrementarono da parte dell’esercito gli attacchi aerei. Visto che il regime non era riuscito a mantenere il controllo di un suo territorio via terra, allora scelse di intensificare la campagna aerea per riprenderne il comando (De Angelis E. , Badran Y. , 2016), e decise di farlo anche attraverso l’utilizzo di barili bomba: ordigni composti da un contenitore metallico (solitamente utilizzato per il trasporto di petrolio), svuotato del suo contenuto e riempito di esplosivo, rottami di ferro e bulloni. Per via di questa nuova circostanza nacquero gli Osservatori, nuovi modelli mediatici dal basso e nel governatorato di Idlib se ne contavano 17. Il loro obiettivo era quello di salvare quanti più cittadini possibili dai bombardamenti e a questo scopo penetravano le frequenze del regime per conoscere e comunicare gli attacchi in arrivo mediante l’uso di dispositivi wireless così da evacuare la popolazione per tempo.
Questo lavoro veniva svolto da volontari che potevano operare singolarmente o in squadre di monitoraggio (Radio Rozana FM, 2015). Ciascuno di questi era conosciuto per il suo nome di battaglia, perché purtroppo non mancavano pressioni da più gruppi armati, come raccontano De Angelis e Badran. Nonostante ciò i volontari lavorano ininterrottamente senza riposare mai (Radio Rozana FM, 2015), posizionandosi sui colli (De Angelis E., Badran Y., 2016) in modo tale da avere una migliore ricezione. Successivamente gli Osservatori iniziarono a coordinarsi con le squadre di protezione civile, con i medici degli ospedali, per esempio per richieste urgenti di donare sangue o di contattare famiglie di pazienti anonimi arrivati in ospedale in un momento particolarmente caotico (Radio Rozana FM, 2015). I civili stessi potevano a loro volta contattare gli Osservatori in caso di bisogno (De Angelis E., Badran Y., 2016). Tuttavia, a volte, alcuni operatori potevano avere una bassa scolarità e fare uso di retoriche populiste, settarie e incendiarie (De Angelis E., Badran Y. , 2016). Inoltre le loro comunicazioni non arrivavano a tutta la popolazione perché non tutti possedevano dispositivi wireless (in particolare walkie-talkie), che all’inizio della rivoluzione si trovavano in abbondanza nei negozi a prezzi competitivi, tra i 15 e 20 dollari (De Angelis E., Badran Y., 2016), ma che con lo scoppio della guerra nel 2013 avevano visto salire il loro prezzo a 100 dollari l’uno, erodendo il potere d’acquisto delle famiglie (Radio Rozana FM, 2015). Radio Fresh cercò di rimediare per quanto possibile a questa criticità, trasmettendo via radio le comunicazioni degli Osservatori. Tuttavia anche Radio Fresh aveva alcune difficoltà e faticava a raggiungere le case di tutti. Perché come c’erano famiglie che, vista l’inflazione, non erano riuscite ad acquistare un dispositivo wireless, non tutte avevano una radio in casa. I continui bombardamenti rendevano difficile stabilizzare un segnale FM e avevano un impatto anche su tutte le attività della società civile di politica, attivismo e informazione in cui anche i membri della radio erano coinvolti. Zaina Erhaim lo ha documentato in un suo articolo dove parla del 2013:
Kafr Nabl, come anche Idlib più in generale, aveva cambiato volto. Molti cittadini erano partiti e nel frattempo erano arrivate molte nuove famiglie provenienti da altre città siriane, e il tessuto sociale precedentemente esistente si era modificato (De Angelis E., Badran Y., 2016). Il tasso di disoccupazione era alto, sfamare la famiglia molto difficile e c’erano continui blackout (De Angelis E. , Badran Y., 2016). Le persone però avevano più tempo libero, e quindi si generava un nuovo tessuto sociale, fatto di contatti sociali davanti alle loro case, nelle moschee, nei giardini o nei frutteti. La guerra li aveva costretti a fare più affidamento gli uni sugli altri tant’è che si visitavano più spesso per condividere il momento che stavano attraversando (De Angelis E., Badran Y., 2016). Nei momenti in cui Internet non funzionava e non si poteva comunicare usando i social media, questa era la modalità più efficace per far circolare le informazioni. Nonostante le difficoltà, Radio Fresh FM era stata in grado di raggiungere un pubblico sopra alla media, ma soprattutto era stata in grado di cogliere le esigenze dei suoi ascoltatori. Per questo nel corso dell’anno la stazione incominciava progressivamente a farsi carico di nuove funzioni. Iniziò a seguire le orme del Media Center trasmettendo notizie indipendenti.
Oltre alle narrazioni del regime infatti si stavano intensificando quelle fondamentaliste – come ha raccontato Fares entrambe giocavano una partita ideologica per vincere l’anima della Siria (Fares R., 2018), ed è per questo che il lavoro della radio era prezioso.
La radio iniziò a offrire programmi educativi e corsi di formazione (Syrian Archive, 2020) a più di 2.500 giovani uomini e donne aiutandoli a diventare giornalisti (citizen-journalist) “di cui c’è tanto bisogno in Siria” diceva Raed Fares (Fares R., 2018), un lavoro che anche Zaina ha svolto indipendentemente dalla radio. La radio non ha fatto mancare spazi di discussione per la popolazione dove poter esprimere i propri pensieri come il programma Shakawa al-Nas (Lamentele dal Popolo), programmi satirici e anche gare di vario genere con premi in palio come il programma Yamit Masa (Buona Sera). Per portare avanti questi programmi, Radio Fresh aveva installato in giro per la città e i villaggi circostanti delle cassette della posta, che erano via via aumentate, arrivando ad essere una trentina nel 2016. Le cassette erano uno strumento strategico innanzitutto per far sì che le persone potessero comunicare tra di loro e con la radio quando le altre forme di comunicazione non erano disponibili, e consentiva loro di inviare alla radio richieste, reclami, temi, storie e anche le risposte per il programma Yamit Masa, che poi venivano trasmesse via radio (De Angelis E., Badran Y., 2016). La radio offriva anche più in generale dei percorsi scolastici, educativi e dei centri per l’infanzia che davano ai giovani un po’ di sollievo dalla guerra (Fares R., 2015 ). Per portare avanti tutti questi programmi, Radio Fresh FM iniziò ad assumere personale, diventando così una fonte di reddito per moltissimi uomini, donne e giovani giornalisti (Syrian Archive, 2020). Un ulteriore scopo della radio era quello di creare un ambiente di parità di genere e di emancipazione femminile con l’istituiti di ulteriori centri per insegnare alle donne competenze come la lettura, l’informatica, il primo soccorso e l’attivismo civile (Fares R., 2015 ). Radio Fresh voleva dare consapevolezza alle ragazze di quella comunità indicando così che potevano raggiungere i loro sogni, che non avevano obblighi da seguire e soprattutto che rappresentavano il futuro del paese.
Sul piano internazionale l’anno a cavallo tra il 2012 o 2013 fu emblematico per numerosi motivi. Partendo dal 2012, le richieste di dimissioni del Presidente Bashar al Assad da parte degli Stati Uniti e degli stati europei si fecero insistenti. Nel luglio di quell’anno arrivò una contro-risposta siriana quando Jiahd Makdissi, portavoce del ministero degli esteri siriano, ammise in un comunicato che il suo governo possedeva armi chimiche allo scopo di difesa dalle aggressioni esterne (Pascolini A., 2013). Questa consapevolezza portò alla internazionalizzazione del conflitto a partire dalle dichiarazioni dalla presidenza statunitense con l’annuncio della politica della red line, a cavallo tra le due presidenze Obama.
La politica della red line per gli Stati Uniti significava anche solo osservare lo spostamento di un gruppo di armi chimiche, non necessariamente il loro impiego (Rhodes B., 2018). In tal caso, gli Stati Uniti sarebbero intervenuti nel conflitto siriano, in via eccezionale. Tuttavia, nel marzo 2013 in una piccola cittadina ad ovest di Aleppo, a Khan Al-Asal, vennero impiegate per la prima: più di 25 persone furono uccise e ci furono oltre un centinaio di feriti. Dal 15 gennaio al 15 maggio la Commissione d’Inchiesta dell’Onu svolse delle indagini che confermarono tale evento, oltre a verificare anche altri attacchi chimici avvenuti a Oteiba (Damasco), Sheikh Maqsud (Aleppo) e Saraqeb (Idlib) rispettivamente il 19 marzo, 13 aprile e 29 aprile (Redazione Tg3, 2013). Il 21 agosto fu impiegato il sarin nei sobborghi di Damasco, a Ghuta, uccidendo più di 1500 persone.
In questa occasione, l’amministrazione americana si comportò seguendo le dichiarazioni fatte da Obama. Furono contattati legislatori e giornalisti per avere la conferma che a dare l’ordine fosse stato Assad. Contemporaneamente venivano stilati i piani d’attacco che tuttavia si sarebbero limitati a distruggere non le scorte chimiche stesse – le cui esplosioni avrebbero potuto diffondere il gas in lungo e in largo – ma piuttosto le munizioni e le strutture necessarie per lanciarle in battaglia (Kaplan F., 2016).
Inizialmente Obama ricercò alleati che avrebbero sostenuto l’intervento nella comunità internazionale. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu si divise sapendo che Russia e Cina avrebbero potuto utilizzare il diritto di veto essendo sostenitori del governo siriano. Senza un mandato dall’Onu la Nato, tra cui anche l’Italia, non avrebbe appoggiato l’intervento. Solo David Cameron e Francois Hollande, all’epoca rispettivamente primi ministri della Gran Bretagna e della Francia, avrebbero acconsentito, se non fosse stato che le loro intenzioni furono bloccate dal Parlamento britannico e dalla mancanza di consenso in Francia sia sul piano politico che dell’opinione pubblica.
La mancanza di un appoggio internazionale non influenzò la decisione del presidente statunitense, che sembrava del tutto intenzionato a proseguire la rappresaglia contro Assad. Prima però Obama scelse di chiedere il sostegno del Congresso (Kaplan F., 2016). che sembrava sul punto di respingere la risoluzione del Presidente (Weissman S. R., 2017) a causa dei sondaggi che mostravano una forte contrarietà all’intervento dell’opinione pubblica statunitense, ma nel frattempo la Russia intervenne con un’iniziativa diplomatica. L’accordo raggiunto superava la possibilità di un intervento armato statunitense, purché fosse dato libero accesso ai funzionari Onu ai depositi di armi chimiche, che queste venissero distrutte e che la Siria aderisse alla Convenzione sulle armi chimiche e rispettasse la risoluzione 2118.
Il 27 settembre 2013 veniva quindi approvata all’unanimità, la risoluzione 2118 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, descritta come un grande successo da tutte le parti coinvolte. Secondo la risoluzione, la Siria avrebbe avuto tempo fino alla metà del 2014 per distruggere il suo arsenale di armi chimiche e nonostante alcuni ritardi, venne confermato che il governo siriano distrusse la gran parte di quelle armi nei tempi previsti. La stessa risoluzione ha avuto delle conseguenze geopolitiche importanti. Innanzitutto, ha sancito ufficialmente la supremazia di Mosca nell’area, ma ha anche restituito al Presidente siriano una figura di credibilità, di autorevolezza. Quest’ultimo effetto è stato incalzato degli effetti mediatici che hanno dipinto il Presidente come “obiettivo di un complotto occidentale scampato grazie alla saggezza russa”, come spiegato da Lorenzo Trombetta, corrispondente Ansa e Limes (Trombetta L., 2014). Inoltre, implicitamente, la risoluzione faceva passare il messaggio sbagliato che il problema della guerra portata avanti dal regime di Assad fosse l’impiego di armi chimiche sui civili, come se non fosse altrettanto grave l’uso sui civili di qualsiasi altra arma. Per questo motivo la speranza che gli attivisti e i cittadini di Kafr Nabl dimostravano nei confronti della comunità internazionale venne messa alla prova. La comunità di Kafr Nabel volle dimostrare la sua solidarietà ai propri concittadini. Questa volta però lo fecero attraverso un cortometraggio dal titolo The Syrian revolution in 3 minutes diretto da Raed Fares, organizzato e recitato dai cittadini. Il cortometraggio era inoltre indirizzato al pubblico occidentale che non sembrava essere in grado di comprendere cosa stesse accadendo in Siria e serviva anche a contrastare la propaganda del regime. Collettivamente fu scelto di rappresentare una scena universalmente riconoscibile: l’era dell’uomo delle caverne. Essa rappresentava un capitolo della storia più semplice, dove l’anarchia che vigeva faceva sì che la comunicazione fosse diretta e chiara. Ecco a voi il cortometraggio, che per la sua realizzare ha avuto una forte collaborazione tra gli attivisti e i cittadini che formavano la troupe cinematografica, ma anche con l’esercito libero siriano (ELS) che ha fornito le mitragliatrici e le pistole. Hanno partecipato anche Ahmad Jalal per la realizzazione delle illustrazioni e Hammoud Jounin per la recitazione del ruolo della Russia.
A seguito di questo corto, Raed Fares ha confermato che la troupe ha tentato di produrne uno ogni settimana, esempio ne sia A Dialogue Stained with Blood dove recita sempre Hammoud Jounin:
Altro esempio è Support the American Attack dove hanno partecipato bambini, donne e uomini anziani. Questo secondo cortometraggio è riuscito nel suo intento in quanto è stato proiettato durante una delle sessioni del Congresso degli Stati Uniti e commentato in prima pagina sul New York Times attraverso un’intervista fatta all’ufficio informazioni di Kafr Nabel (Enab Baladi, 2013).
Il caso di Ghuta è una dimostrazione emblematica di come, grazie al ruolo della tecnologia, il dissenso dei siriani è stato capace di evolversi di pari passo con l’evoluzione della repressione del regime e di come ci sia stata una fioritura dal basso del giornalismo civile, citizen-journalism, che ha portato alla copertura di cui ha goduto Ghuta. Per comprendere la portata e l’importanza di questo questi fenomeni è utile fare un parallelismo con il massacro di Hama nel 1982.
La sera del 1° febbraio 1982, la città di Hama (considerata una delle roccaforti della Fratellanza musulmana con cui il regime era in conflitto dal 1979), veniva circondata: Hafez al-Asad, padre di Bashar e all’epoca presidente, aveva mobilitato l’esercito, le forze speciali della difesa siriana e gli agenti Mukhabarat. Inoltre delegò a suo fratello minore Rifaat al-Assad, comandante delle Compagnie di Difesa e membro del Comitato Regionale (Trombetta L., 2014), la direzione e il controllo dell’operazione su Hama. Venne dato un aut-aut ai cittadini: resa della città e giuramento di lealtà al regime o la consapevolezza che, se avessero rifiutato, l’esercito avrebbe considerato chiunque si trovasse dentro la città come un/a ribelle.
L’inizio dell’offensiva fu sancito da molteplici bombardamenti aerei sul centro storico di Hama che distrussero l’antico quartiere di Hadra (BBC News, 2012). Si disse che era una tattica per facilitare l’ingresso della fanteria (Amnesty International, 2012) con i carri armati e le forze speciali. In verità, già da settimane Rifaat e Hafez al-Asad avevano istituito dei check point lungo la periferia della città, e visto il vantaggio numerico e di equipaggiamento di cui godevano (tra uomini e carri armati) in confronto ai fucili automatici, lancia razzi e mortai dei ribelli, avrebbero potuto introdursi nella città indipendentemente dall’uso dell’aviazione (Trombetta L., 2014). Presa la città e sconfitta l’“opposizione”, per due settimane Hama rimase sotto il controllo del regime. L’esercito razziò gli edifici, a caccia non solo di ribelli, ma anche di chiunque avrebbe potuto familiarizzare con la Fratellanza Musulmana o altri gruppi di opposizione clandestina perché dopo il massacro, i civili sopravvissuti avrebbero potuto covare risentimento nei confronti del regime per via dell’uso sproporzionato della forza. La criminalizzazione del dissenso interno, qualsiasi fosse la natura politica o ideologica, divenne necessaria e strutturale ai fini della stabilità del regime. Le entrate alla città erano chiuse, le linee telefoniche interrotte, le risorse di prima necessità consumate, la possibilità di informare il resto del Paese e del mondo di quanto stava accadendo preclusa. Infatti, dopo qualche settimana le altre città siriane vennero informate di ciò che era successo a Hama quando Hafez al-Asad, il 15 febbraio 1982, dichiarò che “[...] la rivolta a Hama è stata soppressa” (Amnesty International, 2012). Oltretutto, l’episodio venne censurato dai libri di storia siriana oltre che dalla stampa. A livello internazionale, se ne prese coscienza con un notevole ritardo.
Il 28 febbraio la parte settentrionale e orientale di Hama venne rasa al suolo (Trombetta L., 2014), infatti la repressione della rivolta non esaurì la brutalità del regime, anzi:
L’esercizio della forza divenne un business, in cui ufficiali dell’intelligence e super-intendenti delle prigioni praticavano arresti arbitrari per ricevere riscatti su cui lucrare (Al-Haj Saleh Y., 2017). Pertanto, Hama segnò l’inizio dell’istituzionalizzazione della violenza e della repressione come strumento politico di controllo del regime sul popolo. Mentre i media governativi dichiaravano un numero imprecisato di decessi militari e 146 civili uccisi, la Fratellanza Musulmana aveva numeri diversi: 3412 insorti uccisi. Le fonti che tengono conto invece dell’intera popolazione colpita dall’assedio e dai bombardamenti stilano un bilancio compreso tra le 10.000 e 25.000 morti – alcune fonti stimano che si arrivi a 40.000 – oltre a 100.000 detenuti e 15.000 desaparecidos (Trombetta L., 2014).
Cosa si può dedurre dalla storia di Hama?
Innanzitutto che i bambini di Dar’a e molti altri insorti nel 2011, se non fosse stato per l’avvento di Internet e dei social media, sarebbero unicamente rimasti scolpiti nei ricordi delle singole famiglie e dei loro cari (Brownlee B. J., 2022) come è stato per la storia del massacro di Hama. Grazie all’avvento di Internet invece le storie dei bambini di Dar’a, sono riuscite a raggiungere rapidamente numerose famiglie, diventando il ponte per tanti che hanno compreso, condividendola, la sofferenza indicibile e hanno potuto reagire (Brownlee B. J., 2022).
In secondo luogo che la mancanza di informazioni e di forme di giornalismo all’epoca era così forte che gli stessi siriani non sapevano quello che era successo, almeno non in toto, isolati nelle loro singole realtà. I cittadini erano stati abbandonati nell’ignoranza, con conseguenze che si sono trascinate per diversi anni a venire. Zaina Erhaim in un suo articolo scriveva:
Grazie a Internet e ai social media in Siria si è raggiunto un obiettivo importantissimo, ossia, come ha meglio detto Ali Safar, un giornalista di Radio Sawt Raya, la conoscenza tra siriani di diverse regioni e classi sociali (De Angelis E., Badran Y., 2016). Inoltre esse sono state efficaci perché hanno svolto un gran numero di funzioni: hanno permesso di connettere il tessuto siriano, dar voce ad auto-narrazioni, esprimere rabbia e rimostranze, celebrare i lutti e i desaparecidos, esercitare una agency fino ad allora negata, inserire pratiche e politiche nuove nell’agenda della rivoluzione popolare (Matar D., Helmi K. , 2020), incanalare il malcontento, organizzare il dissenso e sfidare collettivamente il potere. In secondo luogo, esse hanno offerto uno spazio dove poter ricominciare a fare informazione indipendente, professionalizzando gli individui e rendendo il giornalismo di nuovo una fonte di reddito per le persone (Dollet S., 2015). La maggior parte dei fondatori di questi nuovi gruppi di comunicazione, così come i giornalisti che ne compongono le fila, sono stati avviati a questo mestiere attraverso il loro attivismo prima, durante e/o in risposta alle proteste, sviluppando spesso le loro capacità giornalistiche di concerto con la maturazione degli eventi e delle tecnologie (Badran Y., 2021). Motivo per cui durante il processo di professionalizzazione si inizia a parlare di queste persone e del loro mestiere come attivisti dell’informazione, cittadini-giornalisti, e video-attivisti (Brownlee B.J., 2020). Come meglio dice Waad al-Kateab in una intervista al Middle East Eye:
Le piattaforme online inoltre hanno permesso ai neo giornalisti di esprimere un resoconto critico e approfondito di una realtà che fino ad allora era stata cooptata dai media statali e da quelli privati recentemente ammessi da Assad con una delle sue riforme (Badran Y., 2021). Infine hanno aiutato i manifestanti a raggiungere l’attenzione pubblica internazionale (Brownlee B. J. , 2020). In merito a Ghuta e alla risoluzione 2118 l’opinione pubblica generale era che quest’ultima aveva fornito una soluzione definitiva alla questione delle armi chimiche. Tuttavia, gli attacchi chimici proseguirono. Il Consiglio dei diritti Umani dell’Onu rilevò in un arco di tempo di osservazione che va dal primo marzo al 7 luglio 2017, 25 nuovi attacchi chimici, 20 dei quali erano stati organizzati dalle forze governative ai danni di civili, tra cui quello del 4 aprile 2017 a Khan Shaykun, nel governatorato di Idlib, dove 70 persone furono uccise. In questa occasione la Russia prese le difese del regime mentre l’Unione Europea, i Paesi del Golfo e gli Stati Uniti lo accusarono. A tal proposito la nuova amministrazione di Trump ordinò di lanciare 59 missili Tomahawk contro la base aerea da cui sarebbero state spostate le armi chimiche a sud di Homs. Fortunatamente quest’azione non provocò morti, unicamente grazie allo sgombero tempestivo dell’area prima dell’attacco.
A non distogliere l’attenzione da questi eventi invece è stata la Corte Giudiziaria di Parigi che nel 2023 ha emesso un mandato di arresto internazionale per Bashar al-Assad, per complicità in crimini contro l’umanità con l’attacco chimico perpetrato nell’estate del 2013 a Ghuta. E questo però non sarebbe stato possibile se non grazie al lavoro di documentazione della società civile e dei neo-giornalisti siriani, tra cui per il caso di Ghuta: il Centro siriano per i media e la libertà di espressione, l’Open society justice initiative e l’Archivio siriano (Belhadj Mohamed L., 2023).
Benché in tempi brevi l’arresto dell’ex presidente sia improbabile, è importante riflettere sul significato dei mandati di arresto internazionali, anche alla luce di quanto è successo recentemente nel nostro paese con il caso Njeem Osama Almasri Habish, capo della polizia giudiziaria libica, su cui pendeva un mandato della Corte penale internazionale. Quest’ultima lo scorso 21 novembre aveva anche emesso mandati d’arresto anche per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dell’ex ministro della difesa israeliano Yoav Gallent e del capo del braccio armato di Hamas Mohammad Deif.
Nelle parole del professore Luigi Daniele della Nottingham Trent University:
L'AUTRICE:
Jo Meg Kennedy si è laureata all’Università di Bologna in Scienze Internazionali e Diplomatiche nel marzo del 2023 dove ha approfondito studi di area per le regioni del Sud Ovest Asiatico e dell’America Latina. Attualmente sta completando uno stage giornalistico a Roma per Il Fatto Quotidiano.
IL PROGETTO:
Meglio di un romanzo è un progetto nato a Festivaletteratura nel 2013. È coordinato dal giornalista e condirettore di Q Code Magazine Christian Elia ed è rivolto a giovani autori di età compresa tra i 18 e i 30 anni che vogliano presentare al Festival un’opera inedita di giornalismo narrativo, tanto individuale che collettiva, in forma di reportage tradizionale, podcast o videoracconto. A partire dal 2017, dopo il lancio del bando annuale e la proposta dei temi, la selezione delle candidature e la discussione dei lavori al Festival in occasione delle pitching session, uno dei progetti partecipanti viene scelto per essere sviluppato a puntate sul sito e sui canali social di Festivaletteratura e della rivista Q Code Magazine. Negli anni sono nate produzioni originali capaci di raccontare realtà poco note del nostro Paese e non, talvolta completamente trascurate dalla stampa mainstream: città in rovina, universi lavorativi, eremi di silenzio, sanatori e sentieri dimenticati, quartieri difficili, paesaggi fluviali.
Meglio di un romanzo è un progetto realizzato in collaborazione con Intesa Sanpaolo. Per maggiori informazioni: tel 0376.223989; [email protected].