Storie di storie
7 9 2016
Storie di storie

Un popolo si racconta

Storie di famiglie che incrociano i drammi dell’Europa. Storia di padri, di madri, di zie. Fotografie visibili ed invisibili che ritraggono persone e a loro volta raccontano altre storie. Perché in fondo, tutto il popolo ebraico è un popolo che vive di racconti (come dirà anche Elena Loewenthal). E i due protagonisti dell’incontro nel giardino di Palazzo d’Arco (anche attraverso pagine scelte e lette da Paolo Di Paolo) raccontano proprio storie della propria famiglia e quindi, in un certo senso, del loro popolo. Wlodek Goldkorn divide in due parti il suo libro (qui troviamo una recensione di Gad Lerner de Il bambino nella neve). Nella prima parla della propria famiglia, l’emigrazione dalla Polonia verso Israele e il successivo allontanamento dell’autore dalla terra promessa verso l’Italia; nella seconda viaggia nei luoghi della Shoah, raccontando l’indicibile.

C’è voglia di raccontare perché il popolo ebraico è un popolo che racconta. La festa di Pesach (la Pasqua ebraica) non è altro che il racconto della fuga degli Ebrei dall’Egitto. E ogni anno si aggiunge qualcosa di diverso, di particolari magari inventati. Perché il racconto ha anche a che fare con cose immaginate. Sempre per Goldkorn, la scrittura deve avere anche uno scopo politico. Anche se è importante il concetto di oblio («l’oblio serve per vivere»). Soprattutto quando si parla della Shoah è indispensabile dimenticare, abbandonare l’odio. Non si potrebbe andare avanti altrimenti. Per assurdo, si dovrebbe sapere tutto, ricordare tutto, per poi dimenticare. Come si ricostruisce infatti il vuoto, come si riporta il senso dove un senso non c’è?

Per riempire l’assenza bisogna solo dimenticare. Sigmund Ginzberg racconta tre storie in una (e qui troviamo un esempio dell'autore che parla di Istanbul dove è nato). La storia del padre (che poi è la storia degli Ebrei, e la storia degli Ebrei del Novecento è metafora della storia europea), la storia dello zio spia del Comintern (che non usa mai lo stesso cognome perché importante non è l’identità ma solo la causa, il futuro collettivo), e infine la storia della zia (entraineuse a Praga e gran signora a Milano, rappresentazione di una società già mobile e affatto bloccata).

Per Ginzberg è importante poi la scrittura stessa. Le parole infatti rivelano chi è la persona e la letteratura è soprattutto forma. Certo, la storia è importante, ma la parola deve essere studiata in modo che la scrittura sia leggibile, che le parole siano quelle giuste al posto giusto. Come racconti infatti cose indicibili come i campi di sterminio? Scegliendo bene le parole. E, gli autori lo ribadiscono, senza comportarsi da vittime (le vere vittime, i veri “sommersi”, sono le persone che quotidianamente attraversano il Mediterraneo). Non bisogna essere eroi o vittime, parole che provengono dai capi della rivolta del Ghetto di Varsavia, occorre reagire ad un sopruso o trovare una via di uscita. Magari anche con un po’ di ironia.

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