Incanti fonici e abbagli temporali
L’evento “Io sono suono” inizia, provocatoriamente, con un lungo non-suono: un silenzio che non vuole essere una semplice richiesta di acquietamento al pubblico, ma si pone come spazio di ascolto in un’architettura sonora fatta di pieni e vuoti fonici. Ermanna Montanari, dopo avere dosato i tempi, inizia a sussurrare in quella che sembra essere una lingua straniera. Il mormorio si fa sempre più insistito e presto varca la soglia del gridato, poi si calma nuovamente, e si ricostituisce in un ritmo ai limiti del cantato. Ai termini dei cinque minuti, Marco Belpoliti, moderatore che ha acconsentito a partecipare solo poche ore prima dell’inizio dell’evento, rivela che il testo - in dialetto ravennate - è tratto da un brano del poeta romagnolo Nevio Spadoni.
L'estratto serve a introdurre il tema della serata, L’incanto fonico, titolo dell’ultima raccolta di poesie di Mariangela Gualtieri, altra ospite: un testo formato da brevi frasi - praticamente aforismi - il cui titolo è un'espressione rubata ad Amelia Rosselli. L’incanto fonico è ciò che succede quando si dà voce al verso «come si deve», rispettando ritmo, melodia e musica. È una geometria fatta da un insieme di componenti, fra le quali è fondamentale il respiro. Gualtieri precisa: «la poesia è una tessitura di parola e silenzio». Per questo è nella scomparsa di sé che si può cercare di servire il verso, sparendo dietro di esso e percorrendo millimetro per millimetro ciò che viene detto.
Ermanna Montanari, che ha scritto L’abbaglio del tempo, un insieme di racconti e poesie dedicati al suo paese natale Campiano, chiama la stessa pulsione “atto vocale”, e racconta della creazione di MALAGOLA, centro internazionale per gli studi sulla voce. L’atto vocale è ciò che scaturisce da uno spazio, come può essere una chiesa o un mercato vuoto. È uno smembramento del nostro piccolo corpo che vuole essere voce. Ecco, dunque, l’urgenza di ri-significare il senso dell’udito rispetto alla vista: abbacinati da immagini sempre più frequenti ed esplosive dobbiamo recuperare l’ascolto, come, paradossalmente, ci è chiesto di fare dal silenzio.
Gualtieri recita la parte finale del Requiem tratto da Quando non morivo, che si conclude con la frase «perdonate la mia disattenzione». Belpoliti coglie l’input e chiede a Montanari cos’è, al contrario, l’attenzione. «È amare qualsiasi forma o sforma del corpo, avere lunghissime orecchie e accettare». La voce che emerge a seguito di tale ascolto non è la nostra, ma una molteplicità. È, in sostanza, una continua domanda da porre al mondo e a noi stessi. La poesia - si inserisce Gualtieri - proprio per il suo essere un'energica modalità di attenzione, può dire sia la trascendenza sia la concretezza: non riguarda un mondo lontano, ma è nostra alleata.
Il requiem di Gualtieri è il giusto preludio per un racconto di Montanari sui morti, con i quali è necessario un dialogo. Per questa esperienza intima ed ermetica, forse, un personaggio ricorrente nella raccolta della fondatrice del Teatro delle Albe è la strega, una figura che «non parlava italiano, ma io la capivo». Ermanna conclude citando una lirica di Emily Dickinson che esordisce con la frase «io abito la possibilità». Questo è la poesia, nell’ideale delle due autrici: è suono e silenzio, attenzione e disattenzione, unità e molteplicità, trascendenza e immanenza. È «un parlamento interiore», «una casa più bella della prosa», un «quotidiano innamoramento».