Una silenziosa rivoluzione
11 9 2020
Una silenziosa rivoluzione

O del porsi le giuste domande

Guardo i miei pass da volontaria allineati sulla libreria alle mie spalle come si guarderebbero degli amici fidati prima di affrontare una nuova sfida. È la prima volta che partecipo a Festivaletteratura da remoto e sono presa da sentimenti contrastanti: frenesia, curiosità e una buona dose di nostalgia. Non ho il tempo però di soffermarmici su troppo perché nel silenzio della mia camera irrompe una voce maschile.

È iniziata la terza giornata del Festival e si prospetta a dir poco entusiasmante.

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La voce è quella di Hans Tuzzi. No, non il personaggio de L’uomo senza qualità di Robert Musil bensì l’autore italiano conosciuto per le sue due serie di romanzi con delitto, per i saggi e per i suoi «romanzi-romanzi» come ama definirli riprendendo un modo di dire del grande scrittore belga Georges Simenon. A intervistarlo niente di meno che il docente universitario e consulente editoriale Adriano Bon, ovvero lui stesso. Basta infatti che Bon inforchi un paio di occhiali da vista perché si trasformi nel suo pseudonimo letterario con una naturalezza esilarante e inaspettata. Insieme presentano un nuovo romanzo, Nessuno rivede Itaca. Rimango piacevolmente stupita dall’universo di argomenti, citazioni e riflessioni che l’autore apre in una sola mezz’ora. Non è una semplice presentazione è più un manifesto del pensiero e dei principi letterari dell’autore che attraverso i due protagonisti Tommaso e Massimo – uno vivo e l’altro morto – ha l’occasione per ricordarci che siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatte le storie. Siamo trama e ordito di un unico tessuto. Siamo il percorso costante e mutevole che compiamo da soli ma anche l’incontro e lo scontro con l’altro e con la storia, quella con la S maiuscola. In questo intricato disegno il compito dello scrittore è quello di suscitare in noi quelle domande che ancora non hanno trovato parole. Quesiti che ancora si trovano a fior di pelle e non sanno dove andare. Lo scrittore è un oracolo all’inverso, il suo lavoro è incessante e deve esistere nella più completa indifferenza di ciò che il bestiario comune moderno definisce il lettore medio.

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Noi siamo continue divagazioni dal centro proprio come quelle compiute dai due protagonisti che in un dialogo a distanza scambiano ricordi e considerazioni di ogni genere: dalla Seconda Guerra Mondiale vissuta da Massimo alla musica rinascimentale, dagli spermatozoi animali alle linee di sangue dei cavalli da corsa. A tenere insieme tutto ci pensa la letteratura. Seppure in modo differente entrambi i personaggi provano ad afferrare quale sia o sia stato il senso delle loro vite legandosi in una storia che accumula storie e complessità.

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Non faccio in tempo a prepararmi una tisana e mettere sul fuoco l’acqua per la pasta che è già tempo di un secondo evento. Questa volta si tratta di un’intervista impossibile ai premi Nobel per l’economia 2019 Abhijit Banerjee e Esther Duflo tenuta dal politologo e studioso spagnolo José Fernández-Albertos per presentare il nuovo libro in uscita a settembre Una buona economia per tempi difficili. Mi entusiasmo vedendo le molteplici nazionalità: è proprio questo lo spirito che muove Festivaletteratura, unire punti di vista e autori provenienti da tutte le parti del globo per riflettere su domande comuni. Il tema della complessità ritorna, questa volta legato all’economia mondiale e alla struttura sociale dei paesi occidentali funestati da populismi e dall’epidemia. Le domande di Fernández-Albertos sono puntuali e mettono subito il focus sulle soluzioni proposte dai due ricercatori per contrastare la povertà che ancora oggi colpisce larga parte del nostro pianeta. È possibile trovare soluzioni? Qualcuno nella sfera politica ci sta ancora ascoltando? Le risposte sono sorprendenti. Non solo ci sono spiragli di miglioramento ma gli studi dimostrano che è in corso una vera e proprio Credibility Revolution (fenomeno che ammetto ignorassi completamente) ossia una rivalutazione sostanziale dei fatti come strumenti fondamentali per analizzare qualsiasi contesto. Dunque in una società sempre più polarizzata e fondamentalista nel pensiero, infiammata da un dibattito pubblico fomentato dall’odio, non esistono soluzioni semplici e universali. È necessario imparare a vivere nella complessità e nella stratificazione che la nostra società richiede per essere d’aiuto e per mettere in campo politiche concretamente egualitarie, sconnesse dalle ideologie di destra. «I politici» sottolinea la Duflo «devono ritrovare il coraggio di prendere decisioni impopolari e rimettere al centro del sistema di previdenza sociale la dignità dell’individuo, perché sebbene in alcuni paesi l’emergenza riguardi la mancanza di denaro, molto spesso è l’impossibilità di portare avanti progetto il vero motore della frustrazione e della sofferenza delle persone.»

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Una chiacchierata quella fra i tre autori che avrei ascoltato volentieri per ore. Il Festival però non si ferma sebbene il suo tempo sembri sempre dilatato. Ed è proprio una riflessione sul tempo quella che mi aspetta a Radio Festivaletteratura. Dai microfoni mi giungono le voci calde dei Ludosofici, un’associazione che si occupa di filosofia e mette i bambini in contatto con questa materia fondamentale per aiutarli a comprendere la complessità del mondo – anche se immagino sia tutto il contrario. Gli intervistati sono Attila Faravelli ed Enrico Malatesta, musicisti e sound artists. È un’esplorazione sensoriale a tutto tondo quella che raccontano attraverso il field recording ossia la sperimentazione musicale che usa i microfoni per registrare ambienti sonori. Possono essere fiumi, boschi o città, l’importante è abitare quello spazio che non si può prevedere e ascoltarne attentamente i rumori. Suoni come quello del vento non hanno un inizio o una fine ma sono strumenti senza compositore. Musiche senza spartito. Il tempo allora non viene più scandito dall’orologio da polso ma dal susseguirsi degli eventi metereologici. A concludere un intervento tanto lieve, la direttrice teatrale Chiara Guidi dall’animo sovversivo e instancabile. Il suo teatro per infanti – ossia per coloro che vivono prima del linguaggio – ha infatti la proprietà magica di trasformare e sospendere il tempo.

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Nel tempo di un caffè con i biscotti invece ascolto la conversazione fra dei pesi massimi del cinema italiano Roberto Costantini, Giancarlo Leone e Sandro Petraglia. La loro è una disanima e ottimista del panorama cinematografico italiano e del suo rapporto con la letteratura. Letteratura quindi non solo come ispirazione per i lettori ma anche per autori e autrici disposti a sperimentare e plasmare qualcosa di autentico che non deve per forza avere respiro internazionale per essere credibile. Concordo con i loro pensieri: l’originalità e il successo delle narrazioni nostrane sono debitrici nei confronti dell’unicità dell’essere italiano più che ai tentativi di essere omnicomprensivi. Il pensiero va subito all’incontro con Hans Tuzzi di questa mattina quando sottolineava che sono i dettagli a fare la differenza. Una circolarità che fa sorridere. Un’altra magia del Festival.

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Ormai è sera, addento un filetto di trota salmonata con pomodorini e una bottiglia di acqua ghiacciata – per qualche strano motivo fa più caldo ora di questa mattina – e mi rilasso ascoltando la bravissima Marta al timone dell’ultimo incontro di oggi. Di nuovo la radio ma questa volta i protagonisti sono due artisti poliedrici: un poeta Francesco Targhetta e il rapper Alessio Mariani, in arte Murubutu. Si raccontano nel loro essere rappresentanti per antonomasia dello spirito di commistione artistica. Il primo poeta e narratore, con la musica da ritmo alle sue poesie mentre il secondo, con forte impronta cantautorale, si rifà moltissimo ai grandi autori della letteratura e compone testi dai forti accenti poetici. Le parole delle loro composizioni germinano una dall’altra e sintetizzano intere galassie in rime baciate. I loro racconti rimbalzano con violenza contro le pareti della mia camera ormai illuminata solo dalla luce di una abat-jour. Dicono che la poesia sia la miglior scuola di insicurezza ma forse è proprio per questo ti fa porre le giuste domande.

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Alla fine di questa giornata mi sento rinfrancata, arricchita come dopo una settimana intera di Festival. Il tempo si dilata a Festivaletteratura – adesso posso confermare – anche da remoto. Nuove domande hanno iniziato a sedimentare ora dopo ora dentro di me aprendo varchi e compiendo una silenziosa rivoluzione, estirpando cioè la radice del cinismo e dell’indifferenza che come erba cattiva si aggrappa al tessuto dei miei pensieri. Non avrei potuto chiedere di più.

Buon Festival a tutt*!

Festivaletteratura