Alle parole noi apparteniamo
8 9 2022
Alle parole noi apparteniamo

La forza e l’uso delle parole secondo Espérance Hakuzwimana e Domitilla Pirro

Con i romanzi Tutta Intera e Nati nuovi. L’apocalisse dei ragazzini, Espérance Hakuzwimana e Domitilla Pirro si vestono di parole e raccontano il loro significato, la possibilità che la letteratura offre nell’utilizzarle e il divario che queste pongono tra vecchie e nuove generazioni.

Interrogativi

Le due storie portate dalle autrici sul palco del Museo Diocesano nella prima giornata di Festival si evolvono intorno alla domanda: 'chi sono io?', trovando in questa un ruolo fondamentale nella crescita dell’individuo, che vuole trovare spazio in una società che non accoglie, cercando attraverso una lotta continua - con sé stessi e con gli altri – la propria identità.

Espérance dichiara che la risposta alla domanda sta nella forza dell’aggregazione: non nasciamo nudi, sono gli altri a definirci. Domitilla d’altra parte sposta l’attenzione verso il perché ci si pone queste domande ed il loro scopo, ed afferma che «è tutta una questione di appartenenza»: chiedersi ‘chi sono io’ è strettamente legato al trovare il proprio posto nel mondo. Ed è qui che ognuno, a seconda delle proprie caratteristiche, si scontra con le etichette, finendo così per cercare il proprio io negli altri. Nelle relazioni, nelle parole, nei nomi.

Nomi

«Il nome è la prima parola che ci viene attribuita, quella con cui ci poniamo alla società. Ma il nome è anche una parola che ti può incatenare».

Espérance introduce in questo modo uno delle molteplici tematiche toccate durante il confronto: la parola che funge da nome rappresenta l’incipit della vita di un individuo, impersona una provenienza, una cultura, una storia. Dalla maniera in cui questa parola ti definisce consegue una responsabilità nel rispettarlo che spesso non viene mantenuta: l’autrice racconta le tante volte in cui il suo nome è stato storpiato o cambiato con un nomignolo, per semplificare o, peggio, deridere la persona. Ed essere privati del proprio nome significa venire meno alla protezione che ti viene consegnata insieme a questo.

Domitilla spiega che il suo lavoro di autrice sta spesso nel sottrarsi alla realtà e lasciare spazio a questa, assumendo un ruolo di osservatrice. È in questo senso che la letteratura concede la libertà di trovare sé stessi, di trovare nelle relazioni dei personaggi un riflesso personale; Espérance afferma che questa libertà non è di tutti, che alcune persone sono state private della possibilità di domandarsi ed anche della capacità di ritrovarsi nella letteratura, che per l’autrice è stata la migliore compagnia per molto tempo, fino al momento in cui capì che pure questa non la includeva: «decisi quindi di iniziare a scrivere» dichiara.

Cosa ti va di fare?

È in questo mare di domande che le autrici sono chiamate a presentare l’interrogativo che nella loro adolescenza avrebbero sempre voluto gli fosse posto dagli adulti. Domitilla crede che se un semplice “cosa ti va di fare?” fosse stato rivolto ai suoi Nati Nuovi, la storia sarebbe stata incredibilmente diversa, molto più semplice. L’importanza di una domanda del genere sta nel modo con cui questa viene posta, ovvero senza incidere una violenta aspettativa nell’interlocutore: «nell’aspettativa sta una dinamica di potere, ovvero quella tra giovane e anziano, comune alle dinamiche di potere tra generi, etnie, religioni».

Espérance desiderava invece che qualcuno le chiedesse “vuoi compagnia?”. L’autrice ripete: «ho trovato casa nei libri, quando crescendo capii che spesso io non appartenevo a questi». Continua spiegando che la cultura ha diverse vie, seguendo tuttavia una narrazione che si dimostra discriminante dal momento in cui il narratore è comune. Conclude: non è assolutamente scontato, al di fuori di ogni discorso che si può fare riguardo alla cultura, il diritto inalienabile a riceverla.

Impasta storie

La moderatrice definisce le due autrici delle “impasta storie” e le interroga riguardo i due diversi stili di stesura: Domitilla spiega che in Nati nuovi si concede la possibilità di utilizzare un registro quasi gergale: «quando se ne ha il privilegio, è bene esorcizzare alcuni temi». Ambienta così il racconto vicino a casa, per accedere ad una verosimiglianza di luogo che permette di conquistare l’attenzione e la credibilità del lettore.

In Tutta intera si nota invece una maggiore difficoltà nella comprensione, uno stile più complesso; Espérance argomenta la scelta stilistica affermando che il suo obbiettivo era quello di “rimanere nella fatica che volevo raccontare”. L’incontro con l’altro non solo è ma deve essere insidioso, obbligando quindi il lettore a venire meno del proprio privilegio per confrontarsi col disagio – o scegliere di non farlo. L’autrice trova la verosimiglianza del suo romanzo, ad esempio, nel non tradurre alcune sentenze in lingua: «un mio vanto è quello di mettere il lettore in minoranza, portarlo a leggere e rileggere capitoli per comprendere la fatica che è narrata in questi»; solo in questo modo si possono scavalcare i muri che parole e realtà costruiscono.

Mai rinunciare alla rivolta

L’evento si conclude con una riflessione sull’affettività, dove le autrici e il pubblico si confondono in una comune affermazione riguardo alla vera, genuina forza: questa è l’onestà sentimentale, il concedersi di riflettere affinché ci si possa, finalmente, riappropriarsi del sentire.

L’ultima sentenza, che d’altronde è il fil rouge dell’incontro, è una sincera dedica alla rivolta, che è comun denominatore dei due romanzi e dell’indole delle due autrici.

Festivaletteratura