Automi nostalgici quasi umani
8 9 2019
Automi nostalgici quasi umani

Il dialogo di Ian McEwan e Marcello Fois in Piazza Castello, tra robot, Brexit e ansia del futuro

«Ma la stessa mente che in passato si era ribellata agli dei era in procinto di detronizzare se stessa sfruttando le proprie favoleggiate facoltà». Inizia in medias res l’ultimo incontro di Festivaletteratura 2019, quello tra Marcello Fois e l’attesissimo scrittore britannico Ian McEwan, che legge una pagina del suo ultimo romanzo dalle tinte fantascientifiche, Macchine come me.

È una pagina significativa quella con cui l’autore decide di presentarsi a una Piazza Castello tanto gremita da sembrare a Fois «meravigliosa e inquietante, come i romanzi di McEwan». Le poche righe, lette prima nella versione originale e poi nell’ottima traduzione di Susanna Basso, ci conducono dritti nel mondo del romanzo: la realizzazione di un vecchio sogno dell’uomo, la creazione di quella che Charlie, narratore e protagonista, definisce «una versione migliore e più moderna di noi stessi»: un automa che condivide il più possibile i tratti dell’uomo, forse anche la sua coscienza.

Non è un argomento nuovo quello dell’essere umano che tenta di creare un proprio simile migliore di lui, la concretizzazione di ciò che avrebbe voluto essere. Lo abbiamo visto in Prometeo, in Giasone, e in capolavori della letteratura romantica come Frankenstein di Mary Shelley. Ma è stata soprattutto il libro della Genesi a diffondere nell’immaginario collettivo l’idea di un’intelligenza colossale in grado di creare un essere a sua immagine e somiglianza. Non è un caso, infatti, che l’automa che acquista Charlie e che diventa il coprotagonista del romanzo, si chiami proprio Adam. McEwan si inserisce in un archetipo già esistente. Dei robot della tradizione letteraria, Adam eredita anche la malinconia, soffre la sua distanza dall’essere totalmente uomo, il non riuscire ad entrare completamente in quei regimi etici e comportamentali che regolano con proprie leggi le relazioni umane. Adam, ad esempio, è un robot che a differenza nostra non sa dire bugie, nemmeno quelle bianche. Per lui esiste solo verità o menzogna, non è concepibile l’idea di una bugia a fin di bene, la verità è sempre utile, la verità salva comunque. Tuttavia, questo automa prova desideri umani, anche quello sessuale, al punto da avere rapporti con Miranda, la fidanzata di Charlie e scatenare la conseguente gelosia di quest’ultimo che non lo vede più come una macchina ma come un vero rivale.
È interesse del romanzo, dunque, inoltrarsi in questo rapporto multiforme dell’uomo col suo simile autoprodotto. Le macchine possono avere una coscienza? Fino a che punto è giusto trattarle da umani? Ma Macchine come me non è solo questo. Del resto, McEwan ha abituato il lettore a trame e snodi articolati, in cui le complessità dei legami umani convive con problemi etici come quello del progresso, e quello della storia in rapporto all’attualità.

Nel romanzo non c’è solo l’utopica e problematica storia dell’uomo che si confronta con le macchine, con il futuro. Quello di McEwan è stato definito anche un romanzo «retrofuturista». Macchine come meè un’ucronia. Siamo nel 1982 e Alan Turing, che non è morto suicida nel 1954, riesce a dar forma alle prime macchine dotate di aspetto e intelligenza umana. Nella Gran Bretagna di McEwan, le Falkland stanno per diventare argentine, la Thatcher è sconfitta e Tony Bett è in procinto di far uscire il paese dall’Unione europea. McEwan gioca con quello che è stato e lo riscrive. È un avvertimento: la storia non deve essere data per scontata, «dobbiamo mettere in discussione le nostre certezze, capire la fragilità della nostra idea di presente e nostro tentativo di predire il futuro». Ma il disobbedire dello scrittore alle unità di tempo è anche un risarcimento a Turing, probabilmente spinto al suicidio perché omosessuale; è la volontà di dargli quella vita, quel successo che avrebbe potuto avere.

E la storia che sarebbe potuta essere non è poi così lontana da quella che in effetti si rischia che sarà. È inevitabile pensare alla Gran Bretagna di oggi, è naturale parlare di Brexit. McEwan ricorda di quando, in vacanza sulle montagne delle Slovenia, in un attimo si fosse ritrovato in Austria e avesse pensato: «ma che miracolo questa Unione Europea!». Convinto sostenitore di Schengen («uno dei più riusciti mirabolanti progetti della storia»), McEwan afferma di amare la possibilità di muoversi liberamente in quella che definisce una meravigliosa Europa e teme per i giovani, che saranno quelli che soffriranno di più per una Gran Bretagna tagliata fuori da tutta questa meraviglia. «Ricordo ancora i bei tempi andati quando, qualsiasi fosse la situazione politica britannica, potevamo guardare Oltremanica in Italia, e tirare un sospiro di sollievo e subito ci tornava l’allegria, adesso mi chiedo dove andremo a finire». Si domanda scherzosamente lo scrittore.

«Fate qualcosa!» interviene Marcello Fois, e McEwan non si tira indietro dal suo ruolo di scrittore che, come ha fatto Abram Yehoshua (seduto tra il pubblico, in prima fila) può e deve parlare, deve rendere il lettore consapevole. Lo scrittore lo fa immaginando una trama fatta di nomi e fatti veri in una storia diversa da quella che conosciamo, ammonendo il lettore che la storia non è scontata, che il suo esito dipende anche da noi.

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