Coscienze a confronto
10 9 2021
Coscienze a confronto

Vallortigara e LeDoux sviscerano punti interrogativi e tesi sulla percezione di noi e del mondo

Quante volte ci è capitato di pensare “ma se fossi come il mio gatto?” ma se, come scrive Rilke “vivessi all’aperto”, ovvero fuori dai meccanismi di coscienza che ci rendono consapevoli della realtà attorno e di ogni nostro pensiero e gesto? Il dialogo fra Joseph LeDeux (Lunga storia di noi stessi, come il cervello è diventato cosciente) e Giorgio Vallortigara (Pensieri della mosca con la testa storta) si apre e sosta per l’intera durata sulla domanda: ma che cos’è la coscienza? Sembra infatti impossibile non sapere cosa sia, questa coscienza, visto che è ormai un dire comune che “è ciò che ci rende umani” e “ciò che discrimina l’uomo dal regno animale”. Ma come per qualunque fenomeno umano che ci riguarda intimamente è difficile, se non impossibile, porre discrimini fra ciò che la coscienza è e ciò che non è. E oltretutto, appartiene solo alla specie umana? E quando è sorta?

Negli ultimi trent’anni sono proliferati ricerche e studi in questo campo. Nonostante questo, l’abissalità di certi temi mantiene vivo l’alone di mistero che li circonda: la possibilità di approcciarli sotto svariate angolature metodologiche e disciplinari le conserva inafferrabili da qualunque risposta certa e conclusa.

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Il professor LeDoux, alla domanda «cos’è la coscienza?» ribatte prontamente che non può dare una risposta, che è la domanda che va rivista. Non vi è infatti una coscienza, ma diverse forme di essa: coscienza in quanto coscienza di sé, coscienza di uno stimolo esterno, autocoscienza di noi stessi che siamo coscienti di un evento e tante altre esperienze ancora.

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Il professor Vallortigara va a toccare la radice di ciò che accomuna ogni diversa esperienza cosciente: la coscienza va intesa in senso fenomenologico, ci spiega, è il mondo che attraverso suoni, odori, sapori, vista entra in noi e la relazione specifica che attraverso questi stimoli noi instauriamo in un preciso momento con l’esterno. La coscienza è ciò che mette in relazione cervello, corpo e mondo. Utile è porsi la domanda evoluzionistica: perché è sorta? Cosa ci sta a fare, questo sentire?

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Interessante a questo proposito l’esperimento del Blind sight. I pazienti che, per motivi neurologici, hanno una porzione visiva ristretta hanno perduto la coscienza di vedere in quel determinato campo visivo, ma sono in grado di agirvi. Ovvero, non scorgono una penna in quel campo visivo ma riescono a prenderla se li si convince a farlo. Cosa ci dice questo, secondo il professor Vallortigara? Che dal punto di vista del comportamento, la coscienza non è fondamentale. L’essere umano può svolgere una moltitudine di comportamenti anche senza.

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Quando è sorta, allora? Bisogna anche qui ridefinire il tipo di coscienza di cui ci occupiamo. Il professor LesDoux evidenzia continuità e discontinuità evolutive fra organismi animali ed esseri umani: alcune forme batteriche si è visto infatti che hanno forme rudimentali di memoria e apprendimento, senza però disporre di un sistema nervoso. Vallirtogara specifica che è essenziale distinguere fra contenuti specifici dell’esperienza - che divergono a seconda del sistema nervoso dell’animale - e fra avere un’esperienza. Rispetto alla seconda questione, lui afferma «Io sono convinto che si provi qualcosa a essere un verme».

Un’ulteriore distinzione proposta è quella fatta dal filosofo Thomas Reid, spiega Vallirtogara, fra percezione e sensazione: la percezione non include la separatezza fra me e mondo, mentre la sensazione è una percezione che si iscrive nell’esperienza personale dell’animale o del soggetto, sottolineando così distanza e relazione fra me e qualcosa che vi è fuori. La tesi di Vallortigara, conclude, è che la coscienza sia sorta per la prima volta nella comparsa di un momento attivo: non solo ricevere, ma fare. Se percezione è quindi un’essere invasi dal mondo, sensazione è sentire il mio esserci e le possibilità che ho di movimento: ovvero, il punto di partenza essenziale per ciò che chiamiamo sé.

Alla fine dell’incontro vi è silenzio: nessuno che alza la mano, che pone una domanda. Argomenti di tale ampiezza e calibro lasciano la bocca asciutta, a corto di parole e un fremito di avventura sulla pelle, quello che si prova dopo aver messo piede in un paese ancora in via di esplorazione, accompagnato dalla gioia di aver almeno delimitato i confini di questo immenso non sapere.

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