«E noi gli andavamo appresso, perché era Pasolini»
10 9 2022
«E noi gli andavamo appresso, perché era Pasolini»

Luca Scarlini guida il viaggio nei luoghi delle riprese di "Salò o le 120 giornate di Sodoma"

Quando si parla di Pier Paolo Pasolini il rischio agiografico è sempre dietro l’angolo. Fra il mito che si è formato intorno a lui in vita e le circostanze della sua morte, pochi sono in grado di scriverne o parlarne con obiettività, senza scadere in discorsi vagamente messianici, morbosi, o nel pettegolezzo. Quando il nome di Pasolini si unisce a quello del marchese de Sade parlando di Salò o le 120 giornate di Sodoma, questo effetto si amplifica oltre ogni misura. Ma l’evento di oggi smentisce tutte queste preoccupazioni, e si presenta pulito, informativo, intelligente; composito e ricco di voci diverse, atto alla ricostruzione complessa, discreto nel commento.

Un evento atipico, perché è, come da titolo, un viaggio — e non metaforico o non solo: un reale viaggio in autobus attraverso la provincia mantovana per scoprire i luoghi delle riprese di Salò, con come guida Luca Scarlini, che da oltre un anno lavora a questo progetto.

Un viaggio che, proprio perché parla all’intelligenza del partecipante prima che alla sua pancia o all’emotività, solo a fine giornata sopporta di essere definito da Scarlini stesso «Un viaggio iniziatico». Parlando di Salò il riferimento dantesco è quasi obbligatorio, anche solo per la divisione in "gironi" del film: e in qualche modo questa passeggiata (pur nella sua complessiva allegria) ha avuto spesso, quando si tornava ai temi, ai testi e alle immagini del film, il suo carattere inevitabile di discesa infernale. Come al solito, tutto si tiene. Se da un lato Pupi Avati, il vero sceneggiatore di Salò, proprio quest’anno ha girato il film su Dante di cui non sapevamo di avere bisogno, dall’altro il nesso Dante-Pasolini è stato riproposto al festival pochi giorni fa da Maria Luisa Vezzali leggendo la sua traduzione di Terza rima di Adrienne Rich.

«Stanca delle mie vecchie poesie sorpresa
da un acquazzone sulla Quinta Strada
in una libreria
allungo la mano a uno scaffale
ed eccoti Pier Paolo
che parli alle ceneri di Gramsci
nella vecchia rima incatenata [..]».

Legame qui esplicitato in relazione alla forma metrica, ma che spesso, come nel complesso stesso di Terza rima, è tematico.

Il viaggio comincia in Piazza Alberti, sotto il tendone. Scarlini siede accanto a Pupi Avati: «Luca, non so cosa tu voglia da me». «Una storia».
E quello che segue sono quaranta minuti di immersione in un mondo ignoto a chi non ha potuto viverlo, fatto di registi, attori, inseguimenti per avere una firma, tornei di pallavolo pieni di vip, proiezioni private, improbabili scambi di copioni in valigia, fallimenti, carbonare. Roma ci appare con le sue persone, i suoi edifici e soprattutto le sue strade; e Avati mostra di ricordare gli indirizzi di talmente tante persone che Scarlini gli dice che dovrebbe scrivere una guida sul tema. Tantissime volte Avati chiede al pubblico: «Lo conoscete il tale, vero?», e il pubblico non lo conosce. È un mondo che non esiste più, e in mezzo ai suoi intrecci emerge il percorso faticoso della sceneggiatura di Salò. Dal tentativo di scrivere per De Sisti agli inviti a Sergio Citti, dal primo rifiuto di Pasolini di intercedere con Citti alla sua proposta ad Avati di riscrivere da capo, dalla cessione della regia allo stesso Pasolini, alla decisione, infine, di togliere il nome di Avati per ragioni legali. Nel mezzo, riunioni a casa Pasolini: «Pasolini su una sedia, Citti su un divano, io sull’altra sedia, e nell’altra stanza la madre di Pasolini, Susanna. Ogni tanto ci veniva a bussare e chiedeva: Pier Paolo, stasera le melanzane le preferisci fritte o al pomodoro? Lui diceva: Fritte, e riprendeva: Il conte stacca i testicoli e allora…» – in una costante fusione di violenza e intimità domestica.

Poi comincia il viaggio vero: un viaggio in cui neppure gli spostamenti in autobus sono neutrali, perché spesso il sottofondo sono conversazioni con Pasolini e testimonianze di personaggi coinvolti.

(caricamento...)
La tappa numero uno è Cavriana: Villa Mirra Siliprandi, la prima di una serie di ville. Là si alternano i primi testimoni: probabilmente nessuno del pubblico si aspettava che, nella propria vita, avrebbe sentito parlare un paio delle persone che hanno cucinato la celebre polenta coi chiodi. E poi il custode, che ci mostra, a casa sua, le scale riprese nel film; e l’ex vicepreside della scuola media, che racconta di quando hanno invitato Pasolini a tenere una lezione da loro. Si profila già uno dei temi centrali della giornata, che Scarlini riprenderà diverse ore dopo: girare un film come Salò in luoghi così piccoli lascia su di essi un segno duraturo. C’è una costante interazione col paesaggio, sia quello naturale sia quello antropico.

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Seconda tappa, Villimpenta. A Villa Zani si può entrare solo nel vasto giardino; ma quello che colpisce, e che rende questa tappa la più inquietante, è il cancello: a patto di guardarlo dando le spalle all’edificio. Si riconosce l’ingresso ripreso in Salò, dal quale nessuna delle vittime deve sperare di uscire. I partecipanti uscendo fanno qualche battuta, scherzano sul fatto che loro invece stanno uscendo: e da questo si vede che sono turbati. Poi, un risotto notevole, offerto dall'amministrazione comunale e dai celebri "Maestri Risottari" di Villimpenta.

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La terza tappa richiede speciali cautele, perché è in ristrutturazione. Si tratta di Villa Riesenfeldt-Bergamaschi; si entra con attenzione, alla spicciolata, e non si fanno foto. Peccato poter vedere solo l’androne e un po’ di affreschi in salvo di Dante Ferretti, visto che molte delle riprese di interni vengono proprio da lì.

La quarta tappa è l’opposto: una visione chiara di scene che sono andate perdute. Alla biblioteca di Gonzaga si osserva una mostra di fotografie che documentano con cura queste scene — nello specifico, il rapimento di una ragazza. Si tratta di un’eccezione: per le difficoltà avute in passato col Decameron, e per i contenuti che si sapevano già problematici, il set era ermeticamente chiuso. Queste foto sono le uniche, scattate proprio quel giorno da Davoli. Infine si ascolta il racconto di una comparsa, un uomo un po' spiazzato quando lo hanno fermato per strada per proporgli di fare la parte del fascista: «Che avranno visto di fascista in me?»

(caricamento...)
Sesta e ultima tappa: Commessaggio, il suo lungargine, il Torrazzo. Ma è già una lenta riemersione. Spiegazioni architettoniche sul Torrazzo, la mostra dell’artista Marco Goi che riempie i piani, il rinfresco. Sul bus che torna a Mantova non si sentirà più né la voce di Pasolini, né quella dell'attore Uberto Paolo Quintavalle: si chiacchiera, ci si riprende da una lunga giornata. Bisogna, in qualche modo, riemergere.

Pupi Avati l’aveva detto all'inizio: «C’era la sensazione che volesse andare nell’oltre, fare il film che non si era mai fatto, oltre De Sade; e noi gli andavamo appresso, perché era Pasolini». Parlando con i partecipanti, chiedendo del loro rapporto con Salò. La risposta più comune non è né «è il mio film preferito», né «lo detesto», né «non l’ho visto»: è «non l’ho finito». Qualcuno è uscito dopo dieci minuti, qualcuno dopo mezz’ora, qualcuno dopo un quarto d’ora. Lo stesso Avati alla prima visione ha fatto parte, dichiaratamente, di questa schiera. Sembra quel male con cui non è possibile confrontarsi fino in fondo. La voce di Quintavalle dice che quel film era l’espressione della totale disperazione e contraddizione di quel momento della vita di Pasolini. Una partecipante racconta che una sua amica è uscita piangendo dalla sala e che lei non ha saputo consolarla, «perché forse piangere era la cosa giusta da fare».

Ma – impariamo anche questo – non era questa l’intenzione di Pasolini. Nel dialogo inedito in un’osteria di Cavriana, riprodotto in autobus, lo si sente spiegare che non intendeva fare un film dal punto di vista delle vittime, e con vittime per cui si potesse realmente simpatizzare: «perché sarebbe stato insopportabile». Forse lo è stato comunque, tutto sommato. Salò è un film che si capisce – e si apprezza – di più inserendolo nel suo contesto storico, e all’interno del pensiero di Pasolini: perché è anche un apologo. Per questo tali iniziative non possono che portare a una comprensione maggiore, e più completa.

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