La felicità credevo fosse un’illusione necessaria
6 9 2019
La felicità credevo fosse un’illusione necessaria

Il premio Pulitzer per la poesia Philip Schultz dialoga con la traduttrice Paola Splendore

Festivaletteratura rinnova la sua costante attenzione verso la parola poetica attraverso un programma che vedrà presenze internazionali, cui si aggiungerà una serie di incontri con alcuni degli autori più significativi nel panorama della poesia italiana contemporanea, con esondazioni della poesia in territori artistici confinanti, quasi a testarne la vera forza espressiva.


La raccolta con cui Philip Schultz ha ottenuto il premio Pulitzer per la poesia nel 2008 si intitola Failure ed è di fallimenti intimi che è intessuta la sua poesia, da condividere con il lettore con un linguaggio che risulta sorprendentemente semplice e familiare. Schultz è un poeta americano figlio di immigrati provenienti dall’Europa dell’est: quest’origine e la sua appartenenza ebraica sono i due poli attorno ai quali si avvolge tutta la sua opera. La traduttrice, Paola Splendore, che ha curato per Donzelli la silloge Il dio della solitudine (2018) e il poemetto Erranti senza ali (2017), parla di una poesia capace di toccare corde molto profonde dal punto di vista emotivo e definisce Schultz un maestro del ritratto.

(caricamento...)

Nella sua scrittura assumono un ruolo centrale l’infanzia emarginata e le difficoltà materiali della famiglia. Sono due i ritratti che emergono con particolare forza nelle numerose letture tenute durante l’incontro, prima in inglese poi in traduzione italiana. Quello della madre è ispirato da un’opera dell’artista armeno Arshile Gorky, conservata a New York al Whitney Museum e intitolata L’artista e sua madre, che mostra una donna spaventata. L’idea del fallimento, così centrale nella poetica dell’autore, è invece incarnata dal padre proprio nella poesia che porta lo stesso titolo della raccolta, Fallimento. Per pagare il funerale del padre, si legge nel testo, Philip si era fatto prestare dei soldi da persone cui lui già ne doveva: «Uno lo definì una nullità. / No, dissi io, lui era un fallito / Nessuno ricorda / Il nome di una nullità, perciò / Sono chiamati nullità. / I falliti non li dimentichi».

Schultz racconta di aver fatto di tutto per non diventare poeta, di avere iniziato come autore di prosa immaginando di scrivere fiction come Hemingway. Il quartiere da cui proveniva, nella parte settentrionale di New York, era un posto duro, in cui non era concepibile scrivere poesie. I versi sono arrivati più tardi, mediati dalle letture a scuola e con l’amore per la moglie Monica. Del suo processo compositivo parla come di una riscrittura costante dei testi, di cui all’inizio ha solo un’idea vaga, racconta di poesie insulari che «saccheggiano quasi tutto, timori, progetti, congetture e stupori».


Per chi vuole approfondire il percorso, Festivaletteratura propone:

Evento 9 “Una lingua che esiste da sempre” - Evento 21 “Il teatro è un gran patto collettivo” - Evento 26 “La poesia organica” - Evento 44 “Lo zolfo della parola - I riti teatrali di Mimmo Borrelli” - Evento 50 “Sono quello che sono, sono sempre la stessa” - Evento 88 “Una scena che ho visto tanti anni fa” - Evento 101 “Gli occhi, fondali neri” - Evento 135 “Le voci della disobbedienza” - Evento 163 “Il silenzio e la luna” - Evento 188 “La poesia insegna il necessario” - Evento 217 “Ultima poesia”.

Festivaletteratura