La profezia nelle radici
10 9 2023
La profezia nelle radici

Un grande viaggio nella storia europea, attraverso la voce prodigiosa di Olga Tokarczuk

In un immaginario viaggio a ritroso attraverso i territori dell’Europa del Settecento, lontano dall’accademico recinto dei grandi Lumi in ascesa, ci si potrebbe imbattere in un viandante dall’aspetto enigmatico ma dall’innato potere magnetico; dal borsello che porta con sé per contenere i suoi pochi averi personali non potremmo dedurre molto delle sue condizioni di origine. Ma se d’un tratto ci si avvicinasse, riuscirebbe misteriosamente a intercettare in noi un bisogno inespresso e, senza che nemmeno ce ne accorgessimo, a farvi leva per costruire il suo potere su di noi.

Questa è l’architrave portante della ciclopica epopea con cui l’autrice polacca Olga Tokarczuk, premio Nobel per la Letteratura 2018, torna alla pubblicazione in Italia. Che l’oggetto che ci troviamo tra le mani sia materiale magmatico, un rompicapo per le classificazioni, lo capiamo immediatamente: I libri di Jakub non si limita a presentarsi concisamente nei confini consueti di un titolo, ma costringe il lettore a non fermare il proprio sguardo, trascinandolo fino in fondo alla pagina di copertina in un’inarrestabile accumulazione di disgiunzioni, specificazioni temporali, geografiche, metanarrative. In sintesi, un manifesto programmatico che posticipa sempre ulteriormente il congedo al lettore, preannunciando l’ipnotismo di fondo dell’intera narrazione: I libri di Jakub o Il grande viaggio attraverso sette frontiere, cinque lingue e tre grandi religioni, senza contare quelle minori. Narrato dai morti, e dall’autrice completato col metodo della congettura, da molti e vari libri attinto, e sorretto inoltre dall’immaginazione che dei doni naturali dell’uomo è il più grande. Memoriale per i Saggi, Riflessione per i Compatrioti, Istruzione per i Laici, e Svago per i Malinconici.

Apprezzare appieno la complessità di costruzione dell’opera e del contesto storico che la ispira non sarebbe possibile senza l’intervento di un intervistatore come Wlodek Goldkorn, che con Tokarczuk condivide la provenienza da una terra come la Polonia, che ancora invoca una cassa di risonanza per le proprie storie inascoltate. Si tratta di un romanzo di una gestazione laboriosa, della durata di otto anni, che arriva nel nostro paese in questo settembre 2023, a distanza di nove anni dalla prima pubblicazione in lingua polacca del 2014.

Partendo da una lunga fase di approfondita ricerca storica, I libri di Jakub intesse la verità documentaria di una storia realmente accaduta con un ordito narrativo d’invenzione: seguiamo così la complessa parabola delle vicende di Jakub Frank, ebreo di origini oscure che nella seconda metà del Settecento dal piccolo paese di origine della sua Polonia intraprende un vagabondaggio che lo porterà ad attraversare tutta l’Europa orientale, tra l’Impero ottomano e l’Impero asburgico, con lo scopo di compiere la sua grande missione di predicazione. È una narrazione-fiume che ci investe con la forza di una corrente e che ci imprigiona nei gorghi delle sue storie senza possibilità di riemergere dal flusso. Allo stesso modo, altrettanto carismatica e attraente è la figura centrale che domina questo poderoso impianto narrativo che ha le reminiscenze del poema epico, quella di Frank: il sedicente profeta di una nuova verità si cala nel mezzo del popolo, nel vissuto della gente comune, guadagnando lentamente ascolto e consenso e dissimulando con magistrale seduzione la metamorfosi in atto, in cui l’eccesso di fede si deforma nell’ideologia. Quella che si proponeva come una verità alternativa alle idee emergenti nella scena europea della seconda metà del XVIII sec. finisce per divenire l’unica verità possibile, che impone imperiosamente il proprio monopolio sulle conoscenze di fedeli sprovveduti, alla disperata ricerca di una figura carismatica cui rimettere il proprio destino.

Come ci ricorda Wlodek Goldkorn, l’opera si riannoda alle vicende di nascita del movimento mistico popolare dello hasidismo (o chassidismo), sviluppatosi nella seconda metà del Settecento in Polonia nelle regioni di Podolia e Verzina come una ridefinizione dell’ebraismo e talvolta confluito in derivazioni eretiche attraverso figure contraddittorie come quella di Jakub. Tokarczuk ne riesuma la storia attraverso una certosina opera di ricerca bibliografica nelle biblioteche antiquarie, che la porta a un prezioso ritrovamento: i quaderni di appunti dei proseliti di Jakub Frank, che sin dalla prima lettura le rivelano una storia che merita di essere disseppellita e fatta conoscere. Le ragioni di tale censura della storia? Il personaggio di Jakub Frank è senza dubbio controverso e scomodo per diverse categorie di soggetti: in primis, per la Chiesa cattolica; poi per gli ebrei polacchi, perché la degenerazione della sua dottrina ha messo in cattiva luce il nome dell’ebraismo; infine per i suoi stessi discepoli e discendenti, che per dissimilarsi dal nome del mentore impiegarono molto tempo. Il tema della faticosa assimilazione culturale del popolo ebraico assume quindi un ruolo di primario rilievo e Tocarczuk non risparmia uno sguardo ai modi in cui esso si è visto prevaricare attraverso la sua storia.

Eppure narratori come Olga Tocarczuk fondano la propria grandezza su un pensiero libero da categorie aprioristiche: l’autrice riconosce che il fondamento della scrittura del romanzo stia nella ricerca storiografica, ma ammette come la pretesa di restituire una verità documentaria in un romanzo che definiamo “storico” sia irrealizzabile; ogni rappresentazione narrativa del passato avviene sempre attraverso un filtro interpretativo modulato sul presente. Constatata questa imperfezione di fondo, Tocarczuk la ri-funzionalizza e assume su di sé l’impegno di una prospettiva postcoloniale e femminista, che ponga in luce le donne della storia nella loro propria capacità di autodeterminazione rispetto agli uomini a cui i documenti le rapportano, sempre qualificandole come premio al valore di un cavaliere.
Questa voce femminista trova espressione soprattutto in una nuova “quarta persona” della narrazione, nella figura dell’anziana Yente, onnisciente sguardo su tutto ciò che accade nel passato e nel futuro: se il mondo è irrazionale, non può essere indagato solo razionalmente, ma c’è bisogno di uno strumento in grado di decodificarlo.
C’è un miracolo inconoscibile nel modo in cui l’opera di grandi autori riesce a parlare dell’universale partendo da fatti specifici, un mistero attribuibile all’energia che attraversa il mondo e la letteratura tutta, assecondando una prodigiosa e naturale continuità fra vita e arte.

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