Le foto parlano al mio posto
7 9 2019
Le foto parlano al mio posto

La resilienza dei popoli africani

Nel racconto giornalistico contemporaneo l'immagine rappresenta indubbiamente il mezzo più potente e insieme più utilizzato. La scelta di una descrizione meramente didascalica di un evento o ancor peggio di una composizione estetica che distoglie dalla comprensione di ciò che si fa vedere è spesso la soluzione più praticata da chi sta dietro la macchina fotografica. Guardare oltre la superficie, puntare l'obiettivo là dove si può trovare l'inizio di un racconto è invece la cifra etica e poetica di un fotogiornalismo che sta trovando sempre migliori interpreti a livello internazionale.

Intorno a questi temi e al concetto di visione - secondo i punti di vista non sempre coincidenti di discipline e professioni vicine all'ambito fotografico - ruoterà La libellula e il ciclope, un dittico di appuntamenti a cura di Frammenti di fotografia e Giovanni Marozzini.


In psicologia, secondo il dizionario Treccani, la resilienza è la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà, ecc..

Resilient anche il titolo e filo conduttore dell'ultimo libro del fotografo Marco Gualazzini, che racchiude dieci anni di reportage in Africa (dal 2009 al 2018). In questa decade Gualazzini ha fotografato guerre civili, epidemie, crisi umanitarie, in 12 paesi del continente, spesso tornandovi più volte. Eppure, nonostante tutta la sofferenza e il dolore di cui è stato testimone, ha scelto di mettere in risalto la capacità delle persone africane di rialzarsi, nonostante tutto, «di seppellire i propri morti e ricostruire, tornare al mare». L'idea è nata dal servizio fatto per una ONG norvegese nel 2015 in Somalia, uno dei due Paesi che più ha raccontato.

La Somalia dal 1969 al 1991 è stata governata dalla dittatura militare di Siad Barre ed è in seguito diventata teatro di guerre fratricide, abbandonata a se stessa dai paesi occidentali, vittima delle carestie: l'emblema di uno Stato fallito, che dal 2015 ha inoltre cominciato ad accogliere i profughi yemeniti. Gualazzini è tornato più volte nel Paese, riuscendo a creare dei rapporti nonostante le differenze dettate da una lingua e un colore della pelle diverso e i limiti imposti agli scatti dalla presenza di pericoli e milizie armate. Come in tutti i suoi reportage ha cercato di rapportarsi al dolore altro rimanendo fedele al principio di non dimenticare di essere un ospite e dover pertanto rispettare il luogo e la sua cultura, eppure lo percepisce ancora come una sconfitta: un luogo in cui è stato accettato, ma dove non è riuscito a entrare.

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Diverso è invece il suo rapporto con La Repubblica Democratica del Congo, paese che già l'aveva colpito quando ha cominciato ad avvicinarsi alla fotografia negli anni Novanta e i grandi fotoreporter dell'epoca raccontavano le crisi di quel periodo, fra cui quella in Zaire. Un'influenza che ha fatto sì che quando è diventato fotografo percepisse il dover morale di raccogliere il loro testimone e recarsi in questi paesi per vedere come si era evoluta la situazione. Proprio il Congo fu il suo primo contatto da fotografo con il continente africano: partì infatti nel 2009, quando un medico italiano aprì un ospedale psichiatrico nel Kivu. Nel paese, anch'esso sede di diverse guerre civili e tutt'ora in una situazione di forte instabilità, aggravata dal diffondersi di un'epidemia di Ebola, è tornato più volte, fotografando le milizie, le vittime degli stupri e in ultimo l'epidemia del virus letale. Qui è riuscito a trovare nell'inferno ciò che inferno non è, aiutare delle persone.

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Il libro Resilienza ha chiuso un decennio, ma la volontà di indagare e di raccontare il continente africano è tutt'altro che finita: Gualazzini continua a viaggiare, a documentare crisi che nessuno vuole vedere, a fotografare il dolore, ma anche gli attimi di speranza di popoli che non si arrendono.


Per chi vuole approfondire il percorso, Festivaletteratura propone:

Evento 79 “Un tesoro ritrovato” - Evento 111 “Orientare lo sguardo” - Evento 171 “Il reportage tra giornalismo e documento antropologico” - Evento 182 “Le foto parlano al mio posto” - Evento 227 “La fotografia è un haiku”.

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