Stato di emergenza o stato di eccezione?
7 9 2022
Stato di emergenza o stato di eccezione?

Il Covid-19, le misure dei governi e le libertà dei cittadini

«Sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione». All’insegna di questa frase del giurista tedesco Carl Schmitt, racchiusa nell’incipit della sua opera Teologia politica (1922), si apre la disamina condotta dai filosofi del diritto Mariano Croce e Andrea Salvatore, autori del recente volume Cos’è lo stato di eccezione, ben sollecitati dalle domande del giurista Vincenzo Satta.

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Il dictum di Schmitt poneva allora, e pone ancora oggi, un problema intrattabile per uno Stato di diritto. Se si dà, infatti, una fase in cui un potere politico sia legittimato o addirittura chiamato ad agire per fronteggiare circostanze straordinarie, eccedendo l’ordinamento giuridico vigente in tempi ordinari, come può il diritto mantenere poi sotto controllo quel potere sovrano?

Questa domanda, portatrice di intense dispute fra i giuristi nei primi decenni del Novecento, ha inevitabilmente mostrato la sua attualità quando i governi delle liberaldemocrazie europee, per salvaguardare la salute pubblica a fronte dello scoppio della pandemia da Covid-19, hanno adottato misure foriere di limitazioni delle libertà essenziali dei loro cittadini, prima fra tutte la libertà di movimento. In un dibattito pubblico presto polarizzato, non sono mancate le voci di chi ha sostenuto che le classi dirigenti, sfruttando la crisi o addirittura avendola "costruita", avessero in animo di cogliere l’occasione per una più strutturale compressione delle libertà. Sul concetto schmittiano di "stato di eccezione" hanno fatto leva talune di queste interpretazioni.

Verso la confutazione di tali prospettive si muove in maniera alquanto naturale, sulla scorta di diversi elementi tematici articolati su piani complementari, la ricostruzione operata dai tre autori. La ricontestualizzazione del pensiero di Schmitt costituisce uno dei nuclei di discussione, insieme a considerazioni su potenziale e limiti della sua applicabilità alle democrazie contemporanee e, non da ultimo, ai molteplici modi in cui le categorie schmittiane sono ancora oggi utilizzate come arma sul terreno di scontro legato alla funzione del diritto nella società.

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Un primo nucleo di discussione riguarda lo sforzo di Croce e Salvatore, studiosi del pensiero di Schmitt, di ricalibrare e ricollocare la sua apodittica affermazione nel contesto dell’evoluzione di più lungo periodo del suo pensiero, ma anche dei concreti problemi del suo tempo. Il concetto di "stato di eccezione", infatti, non è astratta invenzione schmittiana, ma circostanza legata a doppio filo al famigerato Art. 48 della Costituzione della Repubblica di Weimar, che conferiva poteri eccezionali al Presidente. Ipotesi su cui, argomenta Salvatore, nella sua veste tecnica e scientifica di costituzionalista Schmitt manifestava maggiore cautela.

La riflessione si sposta poi su un secondo versante che, superando la ricostruzione dell’opera schmittiana, cerca di forgiare – come strumento utile a comprendere i fenomeni politici e le tecniche di governo della nostra epoca – una distinzione concettuale fra "stato di eccezione" e "stato di emergenza". Laddove nel primo, infatti, la crisi non si configura come un problema da risolvere, bensì come un pretesto, nella seconda circostanza le misure straordinarie sono autentico strumento di risoluzione della crisi, destinato a venir meno al suo superamento. L’effettiva temporaneità di tali misure e la rispondenza fra queste e i problemi fronteggiati costituiscono, naturalmente, criteri di valutazione e di distinzione fra i due scenari.

In ogni caso, risulta chiaro che le categorie schmittiane rimangono con noi, vive, vegete e talvolta mobilitate a sostegno di determinate "letture" del diritto e, inevitabilmente, della politica. Prova ne sia il "costituzionalismo del bene comune" evocato da Croce. Questa teoria, fondata su un’interpretazione di Schmitt ancorata a Il concetto del politico (1932) e sostenuta da diversi giuristi di rango negli Stati Uniti, prevede di perimetrare un insieme di valori morali – corrispondenti nei fatti a quelli del conservatorismo religioso – rendendoli intangibili all’attività politica, protetti da una Costituzione rigida ed elevati ad elemento fondativo non discutibile della comunità politica.

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