Sudafrica, ovvero l’essere umani
8 9 2022
Sudafrica, ovvero l’essere umani

Damon Galgut, vincitore del Booker Prize 2021, in conversazione su due suoi romanzi

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Il Booker Prize è uno dei più prestigiosi premi del Regno Unito, assegnato ogni anno al miglior libro scritto in lingua inglese e pubblicato in suolo britannico. L’anno scorso è stato assegnato a Damon Galgut. Ma sentendolo parlare, è naturale pensare che possa vantare anche molto altro: un’incredibile sensibilità, una grande nobiltà d’animo e un’amabilità che cattura inevitabilmente l’ascoltatore.

Galgut nasce in Sudafrica, a Pretoria. Quando è ancora bambino gli viene diagnosticato un cancro per cui è costretto ad anni di chemioterapia. Mentre è in ospedale, i genitori e i parenti gli leggono delle storie: così nasce l'amore per i libri e per la narrativa. Quando comincia a scrivere, non molto dopo, sente che quello è ciò che deve e vuole fare, a discapito di tutto. Guardando all’origine della sua vocazione, ora che ha vinto il Booker Prize, la gente gli chiede se si senta predestinato, “il Prescelto”: dopotutto non è comune aver già scritto quattro romanzi all’età di 17 anni (sebbene, come precisa lui stesso, «non meritevoli di pubblicazione»). Galgut non si definisce destinato, ma determinato: anche quando i genitori lo spingono a intraprendere una carriera in giurisprudenza per ereditare l’attività del padre, egli si rifiuta e persevera nella sua ambizione. Dichiara di aver reso molte persone attorno a sé infelici con questa scelta, ma lui vedeva solo la scrittura, l’unica cosa che lo faceva sentire completo.

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Questo sentimento traspare leggendo i suoi libri e sentendolo parlare. È inevitabile, con uno scrittore sudafricano che scrive del Sudafrica, non cadere in discorsi politici. Galgut nasce e cresce fino ai trent’anni nel clima violento dell’apartheid e sotto la sua cappa pia, giudicante e ipocrita, il cui humus ideologico è fortemente condizionato dalla mentalità calvinista. Di conseguenza, lo scenario sudafricano ha un’importanza fondamentale nei suoi libri: La promessa, ultima pubblicazione che ha vinto il premio, copre quarant’anni di storia familiare, dal regime dell’apartheid alla sua caduta e alla transizione verso una società diversa, che però non sa cambiare.

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La "promessa" del titolo è ciò che perseguita i protagonisti: la madre della famiglia Swarts di afrikaner, sul letto di morte, fa giurare al marito di rendere Salome, la domestica nera, proprietaria della casa in cui vive. Il marito promette, ma sa che resteranno parole vuote: nonostante la dedizione e la fedeltà mostrata verso la famiglia in numerosi anni di lavoro, Salome resta un’inferiore, un’esclusa, a cui non si possono riconoscere gli stessi diritti dei bianchi, tantomeno quello di possedere una casa. Anche ne Il buon dottore la storia si svolge in quella che un tempo era una "patria" bantu: un’invenzione dell'apartheid, una riserva tribale rurale promossa a stato-nazione, con una bandiera, un presidente e un parlamento.

Il Sudafrica viene spogliato, messo a nudo: attraverso le vicende dei suoi personaggi, Galgut crea allegorie di un Paese e delle sue debolezze, della storia che ha forgiato i suoi abitanti e di vecchie persecuzioni che sono tanto difficili da comprendere quanto lo sono da debellare.

Allo stesso tempo, si ha l’impressione che le sue storie siano sospese nel tempo e nello spazio, si svolgano in non-luoghi. Molti hanno paragonato Il buon dottore a Il deserto dei tartari di Buzzati, scrittore che è doveroso leggere e ricordare, in occasione del cinquantesimo anniversario della sua morte. Anche in Buzzati il comandante Drogo, in una fortezza nel deserto, rimane in attesa della venuta dei Tartari, che interromperanno il suo non-essere e gli daranno la dimensione del combattimento di cui un soldato ha necessariamente bisogno per auto-definirsi. Lo stesso Galgut, su suggerimento di un amico, dopo aver letto Il deserto a seguito della pubblicazione de Il buon dottore, dichiara di capire perché questo paragone: in Buzzati, come in lui, si apre la possibilità di un territorio mitologico che guarda oltre i dettagli contingenti.

Tuttavia, i suoi romanzi non nascondono solo la metafora di un Paese: La promessa ha uno stile feroce, a tratti quasi sprezzante dei protagonisti, canzonante, derisorio. Allo stesso tempo, sa spogliarli di qualsiasi finzione e lasciarli inermi di fronte allo sguardo del lettore, che li osserva nei momenti più bassi. La sua esperienza personale è forse la chiave determinante per la comprensione del romanzo. È un libro spigoloso, pieno di anfratti e sporgenze, in cui i personaggi rifuggono le relazioni umane sane, non sono in grado di esprimere i propri sentimenti e scappano dalla loro terra, dal loro passato, dalla loro famiglia, da loro stessi. Il sentimento generale è quello di non-appartenenza: tra le altre cose, ma non solo, perché sono sudafricani bianchi, che in un certo senso non sentono di appartenere davvero all'Africa.

In senso lato, è lo stesso sentimento che sembra pervadere i grandi scrittori e artisti in generale: un senso di inadeguatezza, di essere “al di fuori”, che è ciò che consente loro di produrre arte. È ciò che sprigiona il fuoco della scrittura. Galgut stesso, quando aveva sei anni, si è ritrovato fuori dalla vita normale: i bambini della sua età giocavano e nessuno pensava alla morte. Lui, costretto a letto, ha scoperto l’amore per la letteratura, ma allo stesso tempo la concretezza della mortalità. Questo lo ha posto a tutti gli effetti all’esterno della società e poi si è riversato nella sua esperienza di scrittore sudafricano bianco. Ed egli dichiara che effettivamente è vero che per fare lo scrittore devi essere una sorta di spia, guardando la vita reale attraverso una lastra di vetro. Tuttavia, conclude, a questo punto della sua vita è molto più integrato nella vita sociale di quanto lo sia mai stato prima e quindi, forse, la sua scrittura «si esaurirà a breve». Ci auguriamo che non sia così.

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