Toc Toc! Cos'è?
9 9 2022
Toc Toc! Cos'è?

Riflessioni sulla casa e sul senso dell'abitare

«La casa non è di chi la abita, la casa è di chi la possiede». Così Sarah Gainsforth apre il confronto mentre Andrea Staid canticchia Dimmi bel giovane di Francesco Bertelli. Si capisce da subito, il dibattito sarà interessante.

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Una delle principali distorsioni rispetto alla percezione della tematica della casa in Italia è che la casa sia per tutti, ma non è proprio così. La casa è per alcuni. Anche le persone che decidono di acquistarne una e di aprire un mutuo sono inevitabilmente legate al vincolo finanziario di decenni che le tiene strette, vicine e per certi punti di vista impossibilitate. Una dipendenza che limita le proprie scelte personali, le proprie libertà e il proprio tempo. Una dipendenza che non consente l’abitare.

L’idea di casa è sempre figlia di costrutti socio-culturali. I presupposti italiani a tale affermazione si legano inevitabilmente alle tematiche di possesso e confine. La nostra idea di casa è inevitabilmente connessa al concetto di oggetto-merce, con delle implicazioni notevoli nella gestione del patrimonio immobiliare pubblico, con un particolare impatto sulle fasce più fragili e sulla gestione della sicurezza pubblica.

Esiste, tuttavia, una narrazione diversa dello spazio che abitiamo, che può allargarsi, aprirsi e contaminarsi. Andrea Staid, antropologo e autore de La casa vivente: riparare gli spazi, imparare a costruire, in questi ultimi dieci anni ha raccontato storie indigene, capaci di raccontare l’abitare da prospettive inusuali. Nelle comunità Miao e Hmong, che si estendono dalla Cina Meridionale al nord della Thailandia, Staid ha stimolato un’osservazione partecipante basata sulla reciproca conoscenza e funzionale alla rilevazione delle differenze etniche, precludendole dal giudizio morale e dal bagaglio coloniale che ogni antropologo e antropologa sembrano portare a spalle. In questo modo sono emerse sincere differenze rispetto la percezione dello spazio abitato.

«La prima cosa che faccio è farmi osservare. Solo successivamente apro il confronto facendo vedere le foto della casa, di una strada, della porta blindata e della videocamera a 360° in fondo alla via. Oggetti a loro insoliti. Questa modalità è in grado di generare delle domande rivolte all’antropologo e trovare interlocutori e non più intervistati e intervistate».

In questi contesti culturali 'casa' e 'abitare' sono strettamente correlati. La casa si innesta in una relazione continua tra abitanti e territorio, divenendo quindi spazio di condensazione delle reti di relazioni che i soggetti intessono quotidianamente. Il concetto di chiusura che emergeva dalle fotografie che Staid mostrava loro, non era percepito come elemento di sicurezza, ma come chiusura rispetto a una comunità in grado di aiutare. La fotografia della porta blindata era inconcepibile rispetto alla possibilità di uno scambio con la comunità. Il limite, il confine che separava, nella casa milanese, l'interno e l'esterno, il privato e il pubblico, nella loro prospettiva non esisteva, se non sottoforma di soglia.

La casa deve avere a che fare con i corpi e quindi afferma Staid «Negare un corpo è qualcosa che ha a che fare con la vita. La casa è costruita dagli abitanti che vivono questa comunità».

La figura dei senzatetto non riusciva ad esser compresa nel momento in cui veniva spiegata la realtà italiana, dove esiste un problema nazionale consistente rispetto alle gestione delle case vuote.

«Come può un corpo essere lasciato fuori da una casa vuota, inutilizzata, abbandonata?» chiedevano. Nel nostro contesto culturale la casa non è di chi la abita ma di chi se la può permettere.

In Europa ci sono moltissimi esempi di occupazioni, slum, baraccopoli ed esperienze alternative di abitare. In molti di questi casi è possibile notare un welfare spontaneo ed autogestito in grado di compensare la carenza di servizi in questi contesti. Questi spazi diventano laboratori di possibilità e di comunità, funzionali a comprendere la concezione di “bene comune”. La mancanza o la difficoltà di un confronto con lo Stato, viene colmata da una produzione di attività e soluzioni spontanee informali e completamente autogestite che risultano tuttavia funzionali a sopperire tali mancanze.

Sarah Gainsforth suggerisce così una serie di proposte e modalità che puntano a integrare il welfare statale in questo tipo di realtà. Una delle proposte più significative è sicuramente che le amministrazioni aumentino l’acquisto di edifici popolari per contrastare il racket immobiliare privato, cosa che avrebbe una lunga serie di effetti positivi tra cui l’abbassamento generale dei costi degli affitti.

Non ci sono più politiche universali su questo tema e bisognerebbe continuare ad alimentare il confronto. Quello che vediamo oggi è una frammentazione di misure senza una direzione condivisi, unico scudo contro la privatizzazione di migliaia di immobili in disuso. La società viene sempre più divisa e stratificata in categorie peraltro sempre più fragili.

L'unico espediente possibile è quello di tornare alla considerazione manuale e vicina dello spazio. Considerare uno spazio pubblico, un bene comune ricco di potenziale, capace di accogliere istanze e necessità diverse. Gli spazi pubblici non vanno inventati, ma bisogna prendersene cura. La casa come spazio che raccoglie, può solo seguire.

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