Una voce contro la diseguaglianza
8 9 2023
Una voce contro la diseguaglianza

Francesca Mannocchi affronta il tema del racconto di guerra con i giovani adolescenti presenti al festival

Educare le nuove generazioni allo studio e alla comprensione dei conflitti geopolitici in corso nel panorama internazionale è un compito complesso, che investe gli adulti del più profondo significato della parola responsabilità: il sapere veicolato da un reporter di guerra percorre rotte lunghe e perigliose come quelle battute dai profughi di cui vuole riportare le storie; e dai luoghi di conflitto si snoda fino alle nostre «case sicure», dove attende la sua risposta. Perché questo sapere non cada nel silenzio dell’indifferenza, incoraggiato dalla distanza che ci separa degli eventi in atto, deve essere raccolto a partire dall’istituzione che su tutte precorre la formazione della nostra coscienza civica matura: la scuola. A partire dal suo preziosissimo e insostituibile contributo come reporter di guerra, Francesca Mannocchi è intervistata da Simonetta Bitasi in un incontro alla Casa del Mantegna specificamente rivolto ai giovani ragazzi tra i 10 e i 14 anni: per quanto possa apparire ostico cercare di tradurre allo sguardo di un giovane adolescente occidentale la crudeltà degli eventi bellici che coinvolgono maggiormente il Medio Oriente, Mannocchi riesce in questo prodigioso compito, partendo da materie che sono premessa di qualsiasi lavoro giornalistico, la geografia e la storia.

La giornalista sostiene che spesso parliamo dei luoghi senza avere la perizia che dovremmo avere per raccontarne la geografia e cita in proposito Iosif Aleksandrovič Brodskij: è la geografia a fare la storia. È soltanto in presenza che si possono giudicare con contezza la conformazione di un territorio, l’estensione di un paese e i suoi confini. A titolo di esempio Mannocchi riporta la sua recente esperienza come reporter in Sudan, dove ha potuto constatare come la guerra che ha portato alla separazione tra Sudan e Sudan del Sud abbia avuto un impatto soprattutto sui rifornimenti che giungono a una piccola città di confine, Renk. Ciò che prima era rifornito più agevolmente da nord, non può essere adeguatamente sostituito con rifornimenti provenienti da Giuba, la capitale del Sudan del Sud, a causa della totale assenza di collegamenti stradali che pongono Renk in una condizione di totale isolamento geografico. Non esistono bagni a Renk. I profughi che si spostano tra la cittadina e la capitale sono dirottati sulle acque del Nilo, le stesse con cui gli abitanti del luogo sono costretti a lavarsi, in una degradazione umana che accomuna indistintamente chiunque vi transiti.

Che Mannocchi sia inestricabilmente legata alla storie degli individui che incontra durante le esperienze di reportage si può cogliere costantemente nel suo discorso, in cui le esistenze delle storie individuali sono coessenziali alla storia più generale. Ecco che allora ci offre un’istantanea della vita della giovane Mirna, che nel 2020 perse un occhio durante la tragica esplosione di silos contenenti tremila tonnellate di nitrato di ammonio nel porto di Beirut, in Libano. La realtà supera qualsiasi pretesa di finzione narrativa che possa creare empatia e coinvolgimento quando Mirna le mostra la foto del padre, rimasto a sua volta mutilo di un occhio anni prima, durante la guerra civile scaturita per una divisione del potere di tipo settario. Francesca Mannocchi guarda a questo suo incontro come a un simbolo di tutto ciò che dall’Occidente scegliamo di vedere o di non vedere: questa riflessione ci aiuta anche a ricollocare in prospettiva la verità del reale rispetto ai brutali discorsi di odio fondati sulla opposizione noi/loro.

Storie di uomini e donne sono anche quelle dei locali, che intrecciandosi a quelle dei reporter di guerra danno origine a un mutuo scambio di energie capace di valicare qualsiasi pregiudizio di matrice “coloniale” che l’Occidente porta ancora con sé nell’approcciarsi al modo di vivere degli altri popoli.

Così Mannocchi scrive in Lo sguardo oltre il confine. Dall’Ucraina all’Afghanistan, i conflitti di oggi raccontati ai ragazzi (2022):

«Quando si lavora molto all’estero e spesso in zone attraversate da conflitti e crisi politiche e militari si stringono rapporti molto profondi con le persone che si incontrano sul cammino e con cui si lavora. Sono gli uomini e le donne del posto, che ci aiutano a muoverci in un paese diverso dal nostro. Conoscono le persone, organizzano gli spostamenti, traducono per noi parole che non conosciamo e soprattutto traducono per noi culture e tradizioni che non conosciamo e nelle quali rischiamo di far gli errori, mancare di rispetto, anche involontariamente, alle persone che abbiamo intorno.»

Nel racconto di guerra deve sempre esistere un’attenzione agli incontri di civiltà che smonti definitivamente quel retaggio coloniale che subordina i collaboratori mediorientali come meri subalterni dei giornalisti occidentali: non persone che lavorano “per” qualcuno, ma che lavorano “con” qualcuno.

La missione del giornalismo nasce in Mannocchi dall’età di dodici anni, come un’appassionata reazione di sdegno verso un’offesa diretta alla propria nonna, Rita, apostrofata in riferimento al suo servizio prestato a persone più ricche di lei come domestica: Mannocchi decide allora di volersi dedicare proprio a raccontare cosa sia la diseguaglianza, affrontando la paura e disponendosi a ritrattare le proprie personali prospettive valoriali sempre considerando quelli della cultura che incontriamo. È sbagliato giudicare un fenomeno che appartiene a un'altra cultura secondo la nostra personale scala di valori e di grigi: quelle di giusto e sbagliato non sono categorie assolute. È necessaria la ponderazione di giudizio che permette di porre le cose in prospettiva e di attuare una sospensione del giudizio morale. Due sono gli esempi portati alla luce. Da un lato la storia di uomini riscattati dietro pagamento, comprati per essere sottratti da un regime carcerario di tortura. Il secondo caso è quello della separazione tra spazi maschili e femminili presente nelle case dei paesi islamici. E allora ci si chiede in base a quale diritto un occidentale dovrebbe sentirsi legittimato a contestare l'iniquità di trattamento della donna in tale cultura, se le stesse protagoniste non manifestano alcun tipo di dissenso nei confronti di questa usanza, ma anzi, si dicono serene e felici della loro condizione?

Parlare di diseguaglianze e parlarne mantenendo lo sguardo fisso sulle vicende degli individui significa inevitabilmente fare i conti con le condizioni dei rifugiati. L'osservazione dei campi profughi permette di focalizzare due aspetti problematici su cui il grande meccanismo si inceppa. In primo luogo, l'invivibilità con cui i governi dei paesi di accoglienza costringono i rifugiati a vivere, applicando quella strategia di dissuasione in base alla quale non garantire loro le minime condizioni necessarie alla sopravvivenza dovrebbe essere un disincentivo tanto per chi si trova già nel campo profughi, quanto per chi è intenzionato a recarvisi. In secondo luogo, esiste un grande malinteso nel senso del lavoro umanitario di soccorso ai rifugiati: esistono infatti ormai generazioni di persone che nascono, vivono e crescono in una situazione di sospensione, che possono sopravvivere solo se qualcuno le aiuta, quindi non in base a ciò che loro fanno ma solo in base a ciò che a loro viene fatto. Mannocchi sradica così il pregiudizio generalizzato alla base del grande malinteso sulla condizione del rifugiato: il rifugiato non vuole essere aiutato, ma vuole contribuire alla società in cui arriva finché non può tornare nel suo Paese di origine. La domanda di protezione ne cela sempre una di ritornare al proprio Paese una volta terminato il conflitto armato.

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