Processo a Caravaggio, Orazio Gentileschi e Onorio Longhi
Emblematici casi giudiziari riaperti grazie ai documenti conservati negli archivi italiani, ma anche dialoghi sulla libertà e sulla responsabilità dell’artista, sui rapporti tra arte e potere, sulla produzione del mercato dell’arte, sulla fotografia e sull’architettura: questi gli incontri di Festivaletteratura dedicati all’Arte in tutte le sue declinazioni.
Dopo
il successo della scorsa edizione torna a Palazzo Te
il format dei Processi
che quest’anno si immerge nella
storia e nella microstoria dell’arte
e dell’architettura.
Romano De Marco mette
in scena insieme a Michele Di Sivo
e Guido Conti il
Processo a Caravaggio, Orazio Gentileschi e Onorio Longhi, un
evento minore nella carriera a dir poco turbolenta di Merisi e della
sua cerchia di amici. A partire
da
un’accusa per ingiuria vengono
ricostruite
le
atmosfere di una Roma oscura e cruenta,
le liti e le gelosie tra artisti,
la genesi spesso
prosaica di
opere divenute eterne.
Il processo che coinvolge i tre artisti non conosce nessuna violenza se non quella verbale. A denunciare Caravaggio è un altro pittore romano, Giovanni Baglione, sbeffeggiato in alcuni versi satirici divulgati per tutta Roma.
«Gioan
Bagaglia tu non sai un ah
le
tue pitture sono pituresse
volo
vedere con esse
che
non guadagnarai
mai
una patacca
[…]
perdonami
dipintore se io non ti adulo
che
della collana che tu porti indegno sei
et
della pittura vituperio.»
Le
maglie del processo sono apparentemente semplici, Baglione ha girato
la
città capitolina
per trovare delle prove cartacee
che incastrino i suoi avversari. E così arrivano fino allo
spettatore moderno due
sonetti goliardici,
imperfetti e un po’ sgangherati
che rappresentano quella
babele
di scritti, messaggi, dileggi
popolari perduti
nel tempo o epurati nella
letteratura, ma
che ne
costituiscono sempre un ricco humus.
Si tratta di endecasillabi accesi che non risparmiano Baglione, la sua cerchia, le relazioni con i più potenti. Né tanto meno le sue abilità artistiche. Proprio da una sua tela nasce l’astio piccato di Caravaggio: ricevuta un’importante commissione per la Resurrezione di Cristo attorno al 1603, secondo Caravaggio Baglione avrebbe copiato in maniera “goffa” le figure da un suo dipinto precedente, Il Martirio di san Matteo.
(caricamento...)
Durante
l’interrogatorio le
dichiarazioni
di Merisi sono affilate: pittura “goffa” non è una definizione
casuale, se si considera che per lui “un pittore valent’uomo” è
colui “che sappi depinger bene et imitar bene le cose naturali”.
Poche
parole fondamentali che rappresentano
la
sua unica
testimonianza scritta in
merito all’arte e ai pittori del suo tempo.
Le
domande poste a Caravaggio, così come a Orazio Gentileschi e Longhi, vertono
ampiamente sulla buona e cattiva arte, sulle differenze tra
chi crea con maestria e chi “impiastra” la tela. Sia
Caravaggio che Gentileschi vengono trovati
colpevoli
e imprigionati, ma in
ultimo Baglione
non ottiene ciò che sperava: Merisi
non gli
riconoscerà mai il
titolo di
“valent’uomo”.
I fatti di questo processo minore si sommano a tanti altri e celano dinamiche più complesse intrecciate alla realizzazione di celebri opere di quegli anni. Dietro l’accusa di aver sfondato il tetto della propria abitazione si nasconde un impulso creativo irrefrenabile, che spinse Caravaggio a buttar giù le superfici delle sue stanze per poter lavorare alla Morte della Vergine, un quadro alto otto metri quasi quanto tre piani di un'abitazione.
Qui Maria appare come un corpo morto, cereo, molto lontano dalla tradizionale iconografia della dormitio. E proprio questa è la rivoluzione caravaggesca, che riconosce tanto ai soggetti animati quanto a quelli inanimati un’anima, cogliendoli nel loro processo inesorabile verso la morte fisica, nelle loro relazioni con la vita e con il mondo circostante.
Giordano
Bruno direbbe che «la
tavola come tavola non è animata, né la veste, né il cuoio come
cuoio, né il vetro come vetro; ma, come cose naturali e composte,
hanno in sé la materia e la forma. Sia pur cosa quanto piccola e
minima si voglia, ha in sé parte di sustanza spirituale». Come non
ricordare la Canestra di frutta?
Questo succede anche nella Madonna dei Mendicanti, in cui il pennello di Merisi non ritrae l’idea astratta della Vergine o della sua maternità sacra, bensì il legame assolutamente terreno di Donna Lena e suo figlio.
E proprio per gelosia un altro processo vide un notaio romano contro il pittore che rivendicava i suoi diritti sulla modella.
Ognuna di queste tele conserva nelle sue trame lotte di insulti o di armi, contese con padrone di casa, piatti di carciofi tirati contro i garzoni delle osterie; senza questi processi, le parole di troppo o le lettere di scherno non sarebbe possibile immaginare il mondo popolare e vivido che brulica lo sfondo di soggetti elevati, né la forza di una lingua bassa e irriverente che occhieggia allo spettatore moderno.
Per chi vuole approfondire il percorso, Festivaletteratura propone:
Evento 5 “Divina sezione” - Evento 7 “Popster” - Evento 8 “Processo a Jacopo Sansovino” - Evento 34 “Scrivere architettura” - Evento 78 “Città-mondo: Gerusalemme” - Evento 85 “Rieducare lo sguardo ai colori” - Evento 92 “Processo a Giuseppe Biasi” - Evento 93 “Achille Castiglioni: ieri, oggi, domani” - Evento 119 “Città-mondo: Istanbul” - Evento 130 “Abitare l’iconosfera” - Evento 139 “Il design non era nei miei panni” - Evento 149 “Processo a Paolo Veronese”.