L'arte sotto accusa
7 9 2018
L'arte sotto accusa

Processo a Caravaggio, Orazio Gentileschi e Onorio Longhi

Emblematici casi giudiziari riaperti grazie ai documenti conservati negli archivi italiani, ma anche dialoghi sulla libertà e sulla responsabilità dell’artista, sui rapporti tra arte e potere, sulla produzione del mercato dell’arte, sulla fotografia e sull’architettura: questi gli incontri di Festivaletteratura dedicati all’Arte in tutte le sue declinazioni.


Dopo il successo della scorsa edizione torna a Palazzo Te il format dei Processi che quest’anno si immerge nella storia e nella microstoria dell’arte e dell’architettura. Romano De Marco mette in scena insieme a Michele Di Sivo e Guido Conti il Processo a Caravaggio, Orazio Gentileschi e Onorio Longhi, un evento minore nella carriera a dir poco turbolenta di Merisi e della sua cerchia di amici. A partire da un’accusa per ingiuria vengono ricostruite le atmosfere di una Roma oscura e cruenta, le liti e le gelosie tra artisti, la genesi spesso prosaica di opere divenute eterne.

Il processo che coinvolge i tre artisti non conosce nessuna violenza se non quella verbale. A denunciare Caravaggio è un altro pittore romano, Giovanni Baglione, sbeffeggiato in alcuni versi satirici divulgati per tutta Roma.

«Gioan Bagaglia tu non sai un ah
le tue pitture sono pituresse
volo vedere con esse
che non guadagnarai
mai una patacca

[…]

perdonami dipintore se io non ti adulo
che della collana che tu porti indegno sei
et della pittura vituperio.»

Le maglie del processo sono apparentemente semplici, Baglione ha girato la città capitolina per trovare delle prove cartacee che incastrino i suoi avversari. E così arrivano fino allo spettatore moderno due sonetti goliardici, imperfetti e un po’ sgangherati che rappresentano quella babele di scritti, messaggi, dileggi popolari perduti nel tempo o epurati nella letteratura, ma che ne costituiscono sempre un ricco humus.

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Si tratta di endecasillabi accesi che non risparmiano Baglione, la sua cerchia, le relazioni con i più potenti. Né tanto meno le sue abilità artistiche. Proprio da una sua tela nasce l’astio piccato di Caravaggio: ricevuta un’importante commissione per la Resurrezione di Cristo attorno al 1603, secondo Caravaggio Baglione avrebbe copiato in maniera “goffa” le figure da un suo dipinto precedente, Il Martirio di san Matteo.

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Durante l’interrogatorio le dichiarazioni di Merisi sono affilate: pittura “goffa” non è una definizione casuale, se si considera che per lui “un pittore valent’uomo” è colui “che sappi depinger bene et imitar bene le cose naturali”. Poche parole fondamentali che rappresentano la sua unica testimonianza scritta in merito all’arte e ai pittori del suo tempo. Le domande poste a Caravaggio, così come a Orazio Gentileschi e Longhi, vertono ampiamente sulla buona e cattiva arte, sulle differenze tra chi crea con maestria e chi “impiastra” la tela. Sia Caravaggio che Gentileschi vengono trovati colpevoli e imprigionati, ma in ultimo Baglione non ottiene ciò che sperava: Merisi non gli riconoscerà mai il titolo di “valent’uomo”.

I fatti di questo processo minore si sommano a tanti altri e celano dinamiche più complesse intrecciate alla realizzazione di celebri opere di quegli anni. Dietro l’accusa di aver sfondato il tetto della propria abitazione si nasconde un impulso creativo irrefrenabile, che spinse Caravaggio a buttar giù le superfici delle sue stanze per poter lavorare alla Morte della Vergine, un quadro alto otto metri quasi quanto tre piani di un'abitazione.

Qui Maria appare come un corpo morto, cereo, molto lontano dalla tradizionale iconografia della dormitio. E proprio questa è la rivoluzione caravaggesca, che riconosce tanto ai soggetti animati quanto a quelli inanimati un’anima, cogliendoli nel loro processo inesorabile verso la morte fisica, nelle loro relazioni con la vita e con il mondo circostante.

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Giordano Bruno direbbe che «la tavola come tavola non è animata, né la veste, né il cuoio come cuoio, né il vetro come vetro; ma, come cose naturali e composte, hanno in sé la materia e la forma. Sia pur cosa quanto piccola e minima si voglia, ha in sé parte di sustanza spirituale». Come non ricordare la Canestra di frutta?

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Questo succede anche nella Madonna dei Mendicanti, in cui il pennello di Merisi non ritrae l’idea astratta della Vergine o della sua maternità sacra, bensì il legame assolutamente terreno di Donna Lena e suo figlio.

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E proprio per gelosia un altro processo vide un notaio romano contro il pittore che rivendicava i suoi diritti sulla modella.

Ognuna di queste tele conserva nelle sue trame lotte di insulti o di armi, contese con padrone di casa, piatti di carciofi tirati contro i garzoni delle osterie; senza questi processi, le parole di troppo o le lettere di scherno non sarebbe possibile immaginare il mondo popolare e vivido che brulica lo sfondo di soggetti elevati, né la forza di una lingua bassa e irriverente che occhieggia allo spettatore moderno.


Per chi vuole approfondire il percorso, Festivaletteratura propone:

Evento 5 “Divina sezione” - Evento 7 “Popster” - Evento 8 “Processo a Jacopo Sansovino” - Evento 34 “Scrivere architettura” - Evento 78 “Città-mondo: Gerusalemme” - Evento 85 “Rieducare lo sguardo ai colori” - Evento 92 “Processo a Giuseppe Biasi” - Evento 93 “Achille Castiglioni: ieri, oggi, domani” - Evento 119 “Città-mondo: Istanbul” - Evento 130 “Abitare l’iconosfera” - Evento 139 “Il design non era nei miei panni” - Evento 149 “Processo a Paolo Veronese”.

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