La poesia davanti e la poesia nell'ombra
8 9 2018
La poesia davanti e la poesia nell'ombra

Avanguardia, tradizione, traduzione

Prosegue la ricerca sul linguaggio e la scrittura drammaturgica avviata negli ultimi anni al Festival per ritrovare l'intimo e originario nesso tra teatro, poesia e letteratura.


Quello tra Tomaso Kemeny e Antonio Prete è un dialogo sul linguaggio poetico in tre momenti: da un’introduzione di Prete sul concetto di avanguardia si passa a un’analisi di Boomerang, l’ultimo libro di Kemeny, per concludere con una riflessione sulla traduzione della poesia. I due poeti, legati da amicizia oltre che da visioni comuni, hanno entrambi collaborato alla storica rivista Il piccolo Hans.

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Avanguardia: parola-chiave per definire l’opera di Kemeny; una parola spesso usata a sproposito, fraintesa, bistrattata. Viene da La Poésie ne rythmera plus l’action. Elle sera en avant, parole scritte da Rimbaud in una lettera all’amico poeta Paul Demeny. Ovvero: «La Poesia non ritmerà più l’azione. Sarà davanti.» Ma che vuol dire "essere avanti"? Se lo chiedeva anche il filosofo Martin Heidegger nella sua corrispondenza col poeta-partigiano René Char.

Avanti nel suo significato più intuitivo: quello di essere prima dell’azione. E ciò che viene prima è, inevitabilmente, di più. Il discorso si fa quindi meno formale e allude alla funzione della poesia, che viene vista come qualcosa di vivo e attivo, uno strumento che, lungi dall’essere mera riflessione o commento, può giungere lì dove l’azione non può arrivare. Il linguaggio può, ad esempio, con l’atteggiamento ludico che contraddistingue molti movimenti avanguardistici, rivelare l’inconscio. Dietro la rappresentazione verbale si nasconde infatti una rappresentazione figurale, inconscia, e cos'è questo nascondimento se non ironia, anticamente sinonimo di “finzione”, “dissimulazione”? Ironico, volgarmente parlando, è anche il fatto di associare a Kemeny questa definizione di avanguardia, a lui che è un poeta che combatte anche con le "azioni" (fondazione della Casa della Poesia di Milano, occupazione del Colle dell'Infinito a Recanati etc.)

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Ironico ed epico: su questi due filoni si muove la poetica di Tomaso Kemeny, a cavallo, quindi, tra innovazione e tradizione. «Ho nostalgia del futuro, ma sono legato al passato», confessa. Boomerang (Edizioni del Verri, 2017) è diviso in due parti che dialogano tra loro. La prima parte, ironica ma ispirata alla tradizione, è Ghost Poems: poeti che Kemeny ha incontrato personalmente o nei libri prendono la parola, ognuno con la propria voce e la propria “araldica” (come la chiama Prete), per dire qualcosa sulla poesia, sulla sua esistenza, sulla propria esistenza. «Sono dei ritratti» – sempre brillante, Prete, nel dire che sono ritratti nel senso che si ritraggono, che sfuggono alla piena comprensione per tornare a rifugiarsi nella poesia. Tra questi Giorgio Caproni, Paolo Volponi, Ermanno Krumm; ma anche Salvatore Quasimodo e Luciano Folgore, che Kemeny legge, e Amelia Rosselli – all’inizio Kemeny evita di dare alla Rosselli la sua voce di uomo, ma poi dal pubblico gli chiedono di provarci e lui, lieto, ci prova.

La seconda parte è Voci: una specie di teatro epico con al centro la figura di Martin Luther King. Alla domanda su quale sia il legame tra le due parti, Kemeny risponde che è la presenza degli assenti, o la mancanza di alcuni grandi personaggi. «Erano voci che sentivo…» – la poesia, insomma, è una lingua che può mostrare tutto ciò che sfugge alla comunicazione.

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A proposito di “presenze assenti”, ecco un altro paradosso: la lontananza attiva, ovvero quella che Kemeny esercita rispetto alla sua Ungheria, interessandosi sempre più al panorama letterario ungherese – ora traduce, anche, gli ungheresi (Géza Szocs, ad esempio, ospite anche lui al Festival, ev. 29), che prima evitava o si sarebbe commosso troppo. La traduzione, d’altronde, dipende sempre dal rapporto che il traduttore ha con la lingua di partenza. Altro rapporto da preservare, quando si traduce poesia, è quello tra contenuto e forma: non bisogna privilegiare né l’uno né l’altra, bensì lo sposalizio tra i due. Come direbbe Leopardi, per tradurre bene Virgilio bisogna fargli parlare l’italiano “virgilianamente”. Tradurre vuol dire rimanere nell’ombra, diventare poeti all’ombra dell’altro (ev. 21 per approfondire il discorso sulla traduzione).

La traduzione però, sottolinea Kemeny, è legata al tempo: solo l’originale è eterno. “Tradurre” come “portare”: portare dei versi nell’oggi, che è condannato all’impermanenza. Questo “portare” è un atto di forza, aggiunge Prete, perché si spoglia il testo originale della sua lingua, che è ciò che ha di più intimo. È una violenza e anche un atto destinato al fallimento. Per questo non si può tradurre se non ciò che si ama.


Per chi vuole approfondire il percorso, Festivaletteratura propone:

Evento 11 “E’ Bal” - Evento 16 “Homo ridens lab” - Evento 29 “Autoritratto di un Giannizzero” - Evento 31 “Un giorno” - Evento 39 “Ipocrita, mio simile, fratello” - Evento 53 “Debra Libanos: il passato per le armi” - Evento 116 “Tra il dire e lo scrivere” - Evento 127 “Quando veniva la poesia, si fermava tutto” - Evento 144 “Come nasce una poesia” - Evento 147 “Sulle tracce della realtà” - Evento 168 “Amori poetici” - Evento 173 “Dicono che vi sia una parola” - Evento 174 “Crikecrak”.

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