Sotto sfratto: Un'occasione mancata, una nuova opportunità
18 7 2019
Sotto sfratto: Un'occasione mancata, una nuova opportunità

La quinta e ultima puntata del reportage di Francesca Cicculli, scelto nel 2018 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo

Esiste un luogo, a Roma, dove è andata creandosi una comunità di rifugiati politici sudanesi aventi diritto alla protezione internazionale. Sfrattati senza preavviso dalla casa in cui abitavano da più di dieci anni e costretti a vivere per strada fino a un nuovo sgombero il 3 ottobre 2018, in un'estenuante trattativa con il Comune e le istituzioni, i rifugiati di via Scorticabove sono oggi il segno vivente di paralisi politiche, contraddizioni sociali e aneliti esistenziali che nella dimensione locale trovano la loro massima espressione. Quale sarà il destino di padri, figli, lavoratori, disoccupati, studenti e sognatori dopo lo sgombero? Quali identità si nascondono dietro l'etichetta di "rifugiati"? Sotto sfratto di Francesca Cicculli è il reportage scelto a Festivaletteratura 2018 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo. Dopo i ripetuti sgomberi che hanno disperso la comunità, in questi mesi Francesca ha seguito le tracce di alcuni dei suoi componenti, tenendo un diario di testi e immagini che dopo quattro puntate oggi giunge a una (parziale) conclusione e di cui parlerà al prossimo Festival insieme a Francesca Mannocchi e Azzurra Meringolo.

UN ANNO DOPO: UN'OCCASIONE MANCATA, UNA NUOVA OPPORTUNITÀ
[di Francesca Cicculli]

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Una ragnatela che avvolge la serratura del cancelletto di ingresso, le pareti ritinteggiate, due striscioni che indicano che l’immobile al numero 151 di Via Scorticabove è in affitto. Poi ci sono le cose già viste: il lucchetto che serra il portone, i cartelli che ricordano che sono davanti a un’area videosorvegliata.
È passato un anno dallo sfratto della comunità sudanese e ora non si sente che il rumore della retromarcia dei camion pronti a scaricare le merci.

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Non sento più l’odore della plastica sotto al sole, i risucchi delle bocche dopo aver addentato l’anguria, le preghiere all’ora del tramonto rivolte sempre nella stessa direzione.
Un tir evita per poco lo scontro con un furgoncino e ripenso alle ruspe che buttavano giù, distruggevano e schiacciavano brandelli di gazebo. Dove vennero accatastate valigie e beni personali, ora solo macchine parcheggiate.
Della resistenza iniziata il 5 luglio del 2018 non rimane nessun segno. Niente che possa raccontare, a chi passa per la prima volta da qui, che Via Scorticabove era la casa di una comunità che, dopo aver lottato pacificamente, si è dispersa all’interno di una città costruita su promesse mai mantenute e presto dimenticate.

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Ha senso parlare ancora della Comunità sudanese di Via Scorticabove?
Fino a dicembre la potevi incontrare nella penombra di un locale a San Lorenzo, che si colorava di blu quando un proiettore restituiva le immagini della terra che i ragazzi hanno abbandonato sedici anni fa. Si parlava ancora dello sfratto, del silenzio del Comune di Roma: il primo desiderio era ancora quello di poter rientrare insieme in una nuova casa.
Ma erano i mesi in cui la lista degli immobili da sgomberare si allungava e una ragazza era stata drogata, violentata e uccisa in un palazzo abbandonato, a pochi metri da quello dove si riunivano i ragazzi. La caccia allo straniero criminale era esplosa e qualcuno aveva iniziato a dire che anche i sudanesi davano fastidio, così hanno lasciato anche San Lorenzo.
Da gennaio 2019 la Comunità di Via Scorticabove potevi ritrovarla in Via Giolitti, ogni venerdì sera, in una sala messa a disposizione dal sindacato autonomo USB. Ti offrivano il tè, quello fatto con l’acqua bollente versata direttamente sulle due miscele diverse. Quello dove: «l’aggiunta della menta fa la differenza», come precisava Adam.
Tra un sorso e l’altro si parlava di calcio, delle origini della razza umana collocate in Etiopia, di dittatori trentennali e presidenti americani. Qualcuno prendeva lezioni di Photoshop, altri guardavano dirette Facebook dal Sudan. Dallo scoppio della rivoluzione, Via Scorticabove è diventata un luogo innominato, come se non fosse mai esistita davvero. Al suo posto si parlava di Khartoum, di Atbara e di tutte quelle città che si stavano sollevando contro Al-Bashir.

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Ed erano sempre i soliti sei a incontrarsi, gli unici che il venerdì sera non lavoravano e quindi potevano aggiornarsi sulle loro vite, scambiare quattro chiacchiere e ridurre quella distanza creata dalla mancanza di un tetto comune e da una città che diventa sempre più grande e irraggiungibile. Gli altri erano solo i punti grigi della mappa, raccontati tramite le poche e veloci parole di chi riusciva ancora a incontrarsi.
Poi l’USB ha messo a disposizione lo stesso locale anche ad altri gruppi, prenotare e recuperare le chiavi è diventato sempre più difficile e anche i venerdì sera in Via Giolitti sono terminati. «Mi dispiace, io mi divertivo là», mi ha confessato Yayha.
Da allora ho continuato a cercare la comunità di Via Scorticabove, senza riuscire a trovare persone che fossero diverse da quelle che sentivo quasi quotidianamente. La gran parte di loro sembrava essere sbiadita e forse totalmente scomparsa. Mentre mi convincevo di questo non mi accorgevo che in realtà la comunità era più viva e forte che mai. Lo era davanti all’Ambasciata sudanese a Roma, davanti a Montecitorio e in Piazza dell’Esquilino, in tutte quelle manifestazioni organizzate a sostegno della rivoluzione che, contemporaneamente, esplodeva nelle vie della capitale sudanese.
Negli striscioni, nelle bandiere e nei cori urlati, ho trovato un nuovo desiderio, fino a quel momento inespresso: non lottavano più per quel diritto, proprio di qualunque rifugiato politico, di avere una casa, ma per vedere e festeggiare un Sudan che fosse finalmente libero e democratico.

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Quello che l’Italia aveva diviso con leggi sconsiderate e atti illegali, si riuniva in nome di necessità più grandi: la pace, la giustizia e la libertà, come gridano i giovani nelle strade di Khartoum.
Nel frattempo c’è chi ha perso il lavoro, chi ne ha trovato uno nuovo, magari più bello.
Salih ha iniziato a studiare ed è riuscito a prendere il diploma della scuola media. La sua materia preferita è tecnologia, la meno amata è matematica. «Ma l’importante è studiare e imparare», mi dice. Vuole continuare gli studi e nel frattempo ha trovato un lavoro in un hotel.

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Molti di loro hanno iniziato un corso di italiano con una ragazza che mette il suo tempo libero a loro disposizione.
A Yayha le lezioni di italiano non piacciono molto, preferisce parlarlo direttamente. Ora sta aspettando la risposta da Amazon che dovrebbe aprire un nuovo magazzino a Roma e cerca disoccupati da mettere a contratto.
Yayha e Salih, al contrario di Adambosh e di altri, sostengono la rivoluzione in Sudan ma non credono che la situazione si risolverà in breve tempo. «Africa è comunque un po’ indietro, non si può tornare subito. Parliamo sempre del nostro Paese, sappiamo com’è», mi dicono. Per loro è più importante continuare a costruirsi una vita in Italia che sperare di poter tornare presto in Sudan.
«Sarebbe bello andare e tornare quando voglio, quello sì», aggiunge Salih che non nasconde la voglia di rivedere la sua terra, e come Adambosh, che partirebbe subito, continua a rimanere in attesa.
A Via Scorticabove, al progetto di costruire una nuova casa insieme e agli incontri con l’Assessore Baldassare non ci pensano più: «Io mi sono pure dimenticato di quella cosa lì», afferma Yayha.
Basta un anno, in Italia, per trasformare la parola “Casa” in “Cosa”.
Li sento parlare della ricerca di un lavoro che sembra non arrivare mai, di quanto attendono il successo della rivoluzione, di come sarebbe bello poter votare i loro rappresentati ed essere ascoltati. «Funziona così bene qui, la democrazia», mi dicono, nonostante le esperienze che hanno vissuto non lo dimostrino affatto.
Qualcuno si prenderà mai la responsabilità di avergli tolto il diritto alla protezione, il sogno di una nuova vita, e di averli trascinati in questo infinito stato di attesa, al quale sembrano essersi drammaticamente abituati, tanto da parlarne come di una cosa qualunque?
E per la prima volta percepisco lo sfratto nella sua vera essenza, che non è solo fisica, ma è soprattutto esistenziale. Una condizione che nasce nel passato, quando questi ragazzi sono stati sfrattati dalla propria Patria; continua nel presente, nella terra che li accoglie ma che non riesce a garantirgli la protezione internazionale; e lo sarà anche nel futuro, finché in Sudan la situazione non si sarà stabilizzata.
La migrazione ha un prima e un dopo che condiziona le vite di chi, dello spostamento, conosce solo l’obbligo e non la libertà.
E poi c’è il presente, dove chi vorrebbe fermare i fenomeni migratori si rifiuta di ascoltare e lavorare sulle condizioni che portano questi ragazzi a partire. Le manifestazioni nelle piazze di Roma servivano anche a far sapere ai parlamentari italiani quello che stava accadendo in Sudan, ma pochissimi di loro si sono presi l’impegno di raccontarlo, diffonderlo e prendere posizioni. Mentre urliamo di aiutarli a casa loro chiudiamo le finestre sotto le quali manifestano.

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Ho cercato di riunire, in un unico punto della mappa, le storie e i volti di chi è stato costretto a disperdersi per l’inadeguatezza delle istituzioni italiane, convinta che il modo migliore per rendergli giustizia fosse legarli ancora a una via e a un numero civico. Ma Via Scorticabove non esiste più, non come l’avevo conosciuta, e con lei quella comunità di sudanesi che ho ricercato per mesi. Esiste, però, una comunità ancora più grande, che va oltre un luogo specifico e un tetto comune. È la comunità di tutti i sudanesi, degli esuli e di chi è ancora in patria; di chi manifesta davanti il Palazzo del Governo e chi dormendo sull’asfalto a migliaia di chilometri di distanza. Migliaia di punti su una mappa in cui Khartoum e Roma sono vicinissime, unite dagli stessi cori.
Se Via Scorticabove oggi è uno dei simboli della paralisi politica e sociale che vive l’Italia in materia di immigrazione e inclusione; i racconti e le richieste dell’intera comunità sudanese rappresentano una nuova opportunità per mostrarci finalmente attenti e garanti della protezione internazionale.
Se nella gestione dei rifugiati politici continuiamo a perdere occasioni, impariamo almeno ad ascoltare le loro storie, quello che accade nella loro terra e che loro si aspettano di veder realizzato.
Sono sotto le nostre finestre e gridano: pace, giustizia e libertà.
Pace, giustizia e libertà.



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