Sotto sfratto: Via Scorticabove
3 12 2018
Sotto sfratto: Via Scorticabove

La prima puntata del reportage di Francesca Cicculli, scelto nel 2018 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo

Esiste un luogo, a Roma, dove è andata creandosi una comunità di rifugiati politici aventi diritto alla protezione internazionale. Sfrattati senza preavviso dalla casa in cui abitavano da più di dieci anni e costretti a vivere per strada fino a un nuovo sgombero il 3 ottobre 2018,, in un'estenuante trattativa con il Comune e le istituzioni, i rifugiati di via Scorticabove sono oggi il segno vivente di paralisi politiche, contraddizioni sociali e aneliti esistenziali che nella dimensione locale trovano la loro massima espressione. Quale sarà il destino di padri, figli, lavoratori, disoccupati, studenti e sognatori dopo lo sgombero? Quali identità si nascondono dietro l'etichetta di "rifugiati"? Sotto sfratto di Francesca Cicculli è il reportage scelto a Festivaletteratura 2018 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo (leggi qui l'introduzione del lavoro). In questa puntata Francesca raccoglie le prime testimonianze degli abitanti sudanesi dell'accampamento nato a ridosso del civico 151, l'edificio da cui sono stati sgomberati a luglio del 2018.

VIA SCORTICABOVE
[di Francesca Cicculli]

Via Scorticabove è il centro di una zona industriale incastonata tra i cantieri di Via Tiburtina e i murales di San Basilio.
Percorrerla tutta vuol dire essere costretti ad affrontare brecciolino, polvere e curve inaspettate. Ai bordi della strada sono ammassati rifiuti e salotti smembrati e poi lasciati marcire all’aria aperta.

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Cancelli arrugginiti, camion fermi dietro a recinti di cemento e materiali di ogni tipo, impilati uno sopra l’altro, completano l’arredamento.
Solo nell’ultimo tratto, dove le radici dei pini spaccano i pochi tratti asfaltati, un’abitazione interrompe la lunga serie di fabbriche e uffici.
È il civico 151: un grande edificio giallo dal quale il 5 luglio 2018 è stata sfrattata una comunità di sudanesi.
Quando arrivo, dieci giorni dopo lo sfratto, trovo il cancello già chiuso con un lucchetto e un vigilante che protegge l’ingresso da eventuali irruzioni non autorizzate.
Davanti l’edificio è nato un accampamento.
Sembra un porto: numerosi ragazzi trasportano valigie, frigoriferi, scaldabagni e materassi. Ma non si vede il mare.
Sembra un campeggio: gazebi coperti da teli di plastica sono allineati addosso ai due lati della strada. Nessuno, però, sembra stare in vacanza.
È uno dei posti più poveri che abbia mai visto, ma è Roma.

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Y. ha ventotto anni ed è arrivato dal Sudan quando era ancora minorenne. Da dieci anni vive a via Scorticabove, nell’edificio giallo ora sbarrato. È lui a raccontarmi per primo le vicende che a questo sono legate:
«Era gestito da una Cooperativa che è andata via dopo l’inchiesta di Mafia Capitale. Da quel giorno siamo stati lasciati soli, senza nessun aiuto da parte del Comune. Pochi mesi dopo hanno staccato tutto: luce e gas.
Ma qui abbiamo fatto sempre tutto noi. Loro stavano solo alla reception. Si sono arricchiti e poi sono andati via» – sputa i semi dell’anguria pallida che mangiamo insieme e continua a raccontare.
«Sono arrivati senza avvisare e ci hanno buttati fuori. Solo dopo hanno aperto il tavolo delle trattative proponendoci quaranta posti nei centri Extra Sprar, il sistema di accoglienza dal quale siamo usciti più di dieci anni fa. Per noi, che comunque siamo un centinaio di persone, sarebbe come tornare indietro, dopo tutte le fatiche fatte per trovare un lavoro e provare a integrarci.
Vogliono dividere la nostra comunità ma noi non vogliamo separarci, perché quelli che lavorano aiutano quelli che non hanno uno stipendio.»
Parliamo su un materasso posizionato sotto un telo di plastica che a mezzogiorno è diventato un forno in cui è impossibile non boccheggiare per il troppo caldo. Dietro di noi, attaccato alla ringhiera dell’edificio sgomberato, accanto a ogni genere di indumento, c’è un manifesto che colpisce in faccia come uno schiaffo.

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A Y. e agli altri, scappati dalla guerra del Darfur, è stato riconosciuto lo status di rifugiato e la conseguente protezione internazionale. Protezione che, dai racconti, risulta essere stata più simile a incuria e negligenza.
Eppure l’articolo 21 della Convenzione sullo status di rifugiato parla chiaro: lo Stato deve garantire ai rifugiati il trattamento più favorevole possibile in materia di accesso all’abitazione, e comunque in condizioni di parità rispetto a quello accordato ai cittadini italiani.
Niente a che vedere, quindi, con gazebi di plastica ammassati tra loro, teli di plastica inadeguati al caldo e alle piogge e una cucina improvvisata dove i frigoriferi non sono altro che scatole di polistirolo contenenti ghiaccio e l’acqua per lavare le stoviglie scorre da bottiglie di plastica accartocciate.

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Niente bagni o docce, ovviamente, se non fosse per quelle fornite da un centro sportivo relativamente vicino all’accampamento, dove i ragazzi vengono trasportati a turno grazie alle macchine di volontari che gli hanno fornito da subito una vera assistenza.
Nonostante l’abbandono da parte del Comune e, in generale, dello Stato, non serve chiedergli se siano delusi e arrabbiati con l’Italia: un tricolore incastrato tra i gazebi sventola senza sosta e ci scagiona tutti.
A fine luglio la strada è più sgombra: hanno trovato un posto dove conservare i loro oggetti personali fino a quando non avranno trovato una casa. Un camion ha caricato tutto quando molti di loro erano a lavoro. Quella sera c’è stato più silenzio del solito, ma nessuno ha mostrato cenni di cedimento, se si escludono i numerosi dolci ingurgitati uno dietro l’altro sotto lo sguardo attento del cuoco della comunità.
Nel frattempo J. ha provato a convincerci di essere quel Travolta che tutti conoscono e la camminata funky improvvisata al tramonto ci ha trovato tutti d’accordo.
È lui che controlla sempre che tutto sia in ordine, che non vengano lasciati rifiuti sulla strada, che tutti gli ospiti abbiano una sedia e che i gruppetti di persone che si creano non blocchino il passaggio alle macchine.

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È sempre J. che taglia l’anguria e chiede di distribuirla a tutti, arrabbiandosi se nei piatti non vede almeno cinque pezzetti.
Con la bocca sporca di quel sugo zuccherino, O. racconta quanto gli piaccia l’Italia:
«Non la Sicilia, però. Sono contento di non lavorare più nei campi: troppo faticoso, meglio la bancarella.
O. paga, ogni mese, poco più di mille euro di occupazione di suolo pubblico, lavorando cinque giorni su sette a Piazzale Flaminio, nella zona del mercato davanti la metro.
Un anno e quattro mesi fa ha richiesto la cittadinanza:
«Ci vogliono due anni per la pratica, manca poco», sorride e scopre le gengive prive di alcuni denti, «il mio avvocato dice che va tutto bene, ma bisogna avere pazienza e aspettare, soprattutto adesso che è arrivato Salvini.»
Il tempo per uno che scappa dalla guerra si conta in mesi e giorni. Le storie che raccontano sono piene di buchi vuoti, ma non ci sono esitazioni quando si tratta di stabilire quanto tempo è passato dall’inizio della nuova vita. Non ci sono conti da fare sulle dita delle mani quando bisogna calcolare il tempo che resta per ottenere la cittadinanza: una voce chiara e sicura misura con estrema precisione il peso dell’attesa.
Ad agosto sul Raccordo iniziano a circolare i camion che trasportano la legna: il segnale che l’inverno si sta avvicinando, anche se il termometro segna più di trenta gradi.
I gazebi sono stati già sostituiti più di una volta, perché non hanno retto il peso delle bombe d’acqua che per più giorni si sono abbattuti su Roma.

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Nonostante le condizioni sempre più precarie e la minaccia di dover trascorrere per strada non solo l’estate, ma anche le prossime stagioni, l’Assessore Baldassarre non ha ancora trovato una soluzione adeguata al loro caso.
Sono stati loro, al contrario, ad avanzare una proposta al Comune: l’assegnazione di un immobile di proprietà pubblica in cui attivare un progetto di co-housing, come previsto dalle normative regionali sulla rigenerazione urbana e il recupero edilizio.
A queste normative si aggiunge la possibilità di destinare i beni confiscati alle mafie per fini sociali e residenziali, prevista dal "Regolamento per la gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata sul territorio di Roma Capitale".
La comunità ha anche indicato un possibile edificio in cui realizzare tutto ciò: la Tenuta del Cavaliere, di proprietà della Regione Lazio ma data in possesso al Comune di Roma.
La proposta di assegnazione di un bene pubblico per sperimentazioni di co-housing sociale risulta essere sostenibile anche dal punto di vista finanziario. Sono infatti a disposizione: il Fondo Sociale Europeo, il Piano Operativo Nazionale (che prevede più di 9 milioni per i servizi di inclusione sociale) e il Fondo Asilo Migrazione ed Integrazione.
L’Assessore Baldassarre è sembrata interessata alla proposta dei sudanesi, ma ha rimandato tutto al parere dell’Avvocatura, senza specificare le tempistiche necessarie.
S. mi racconta tutto questo il giorno di San Lorenzo, mentre mi versa il caffè aromatizzato allo zenzero e delle ciambelline tipiche del Sudan. Per il giorno dei desideri hanno organizzato una colazione aperta a tutti i cittadini: in pochi minuti Via Scorticabove si è riempita di attivisti, volontari e qualche curioso.

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S. parla: arabo, inglese, francese, italiano e svedese. Ed è proprio la Svezia ad avergli rapito il cuore. È lì che vorrebbe tornare:
«La Svezia è bellissima.» Lo dice con gli occhi lucidi e tu gli credi, anche se la Svezia non l’hai mai vista.
Vorrebbe ricominciare a studiare, ma sa che prima deve trovare un lavoro: si è informato sul servizio di sicurezza nei negozi e sui servizi alberghieri:
«Mi dicono tutti che mi prenderebbero subito negli alberghi perché conosco molte lingue.»
«S., sai che il 10 agosto cadono le stelle?»
«Le stelle?»
«Sì, e se ne vedi cadere una devi esprimere un desiderio. Ma serve un luogo abbastanza buio, sennò non riesci a vederle.»
Alza lo sguardo al cielo:
«Qui è sempre buio.»
Quel giorno sono venuti anche alcuni giornalisti: è stato principalmente A. a intrattenerli, uno dei portavoce della comunità. È laureato in mediazione culturale e parla bene l’italiano.
Vorrebbe prendere una seconda laurea in Scienze Politiche convinto che così potrà raccontare il Sudan:
«Le persone devono sapere cosa succede lì, che c’è la dittatura e i giornalisti non possono entrare. E se sei un giornalista sudanese ma parli male del governo…», con le mani simula un arresto.
«E una cosa bella del Sudan?»
«Il Ramadan: quando c’è il Ramadan si mangia tutti insieme per strada, senza distinzione tra cristiani e musulmani.»
Una divisione religiosa che pesa molto nelle loro storie, in quanto è una delle cause della guerra che li ha spinti a fuggire dal loro Paese.
Eppure è proprio la religione a fare da attraente il 21 agosto, quando la comunità ha deciso di condividere una festa musulmana con tutti i cittadini.
H. si fa chiamare il Siciliano. Gira spesso con gli occhiali da sole e si ricorda di tutti.
È lui a spiegare di che festa si tratti:
«D-AL-ADHA. In italiano è la Festa del Montone. Si mangia la carne.»
«E a livello religioso?»
Con A. e R. mette insieme informazioni vaghe e specifica che è una festa che cade a due mesi e dieci giorni di distanza dalla fine del Ramadan, nel giorno in cui termina il pellegrinaggio alla Mecca. In questa occasione si uccide il montone e poi si mangia, in ricordo del sacrificio che Dio chiese ad Abramo.

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Alle 20, la cena che alcuni di loro sono andati a preparare insieme ai volontari, ancora non è arrivata e quelli rimasti a intrattenere il pubblico iniziano a spazientirsi:
«Sudanesi così: danno un appuntamento e si presentano ore dopo.»
Ma in realtà passa poco tempo e Via Scorticabove viene invasa dai profumi del riso, dello stufato di carne, del pollo e delle verdure.
Mentre mangiamo sui muretti con alle spalle il solito manifesto, Y. racconta del Sudan e di quel conflitto nato già negli anni Ottanta ma esploso solo nel 2003. Descrive soprattutto i campi profughi in Ciad, dove quasi tutti sono passati e che ora sono sovraffollati:
«Il pane bisogna dividerlo in dieci. Il tempo concesso per la doccia anche.»
Diventa sera e tra i saluti si fa strada una richiesta: non portateci più niente da mangiare, perché non sappiamo quanto ancora resteremo qui.
Il 25 settembre i sudanesi si sono presentati al Dipartimento Politiche Sociali del Comune di Roma, dopo che l’Assessore Baldassarre si era chiusa in un lungo silenzio a partire dall’ultimo tavolo istituzionale organizzato venti giorni prima, dove non era stata data nessuna notizia in merito al parere dell’Avvocatura di Stato, atteso da più di un mese, sul progetto di co-housing avanzato dalla comunità.
L’Avvocato Montini, capo staff dell’Assessore, in quell’occasione ha comunicato che il parere dell’Avvocatura era arrivato in Comune, il quale era pronto a riaprire il tavolo, ma questo non è mai avvenuto e nel frattempo la minaccia di un secondo sgombero, questa volta dalla strada, è divenuta sempre più concreta.
Il 3 ottobre, nel giorno in cui si commemorano le vittime del Mediterraneo e prima che iniziasse un’altra delle colazioni solidali organizzate dai sudanesi, le forze dell’ordine hanno messo in atto il secondo sfratto ai danni della comunità.
Il comunicato della Polizia locale ha parlato di “bonifica” dell’aerea, specificando che: "sono state spazzate via tende, baracche e un quintale di rifiuti", e aggiungendo un pezzettino alla lunga lista degli sfratti che stanno interessando la città di Roma negli ultimi mesi.
Città che riconosce lo status di rifugiato solo sulla carta, ma poi non ha i mezzi per garantire tutti i diritti a esso collegati e può procedere solo con le ruspe.

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Tre mesi di trattative con le istituzioni si sono quindi concluse con lo smembramento della comunità: proprio il finale che i rifugiati volevano evitare.
Chi a San Lorenzo, chi sulla Portuense o in altre zone della città, i ragazzi continuano a non avere sostegno da parte del Comune che li ha abbandonati per la terza volta.
Oggi a Via Scorticabove si sentono solo i rumori delle industrie e dei camion che caricano e scaricano materiali.
Ai lati della strada i gazebi hanno lasciato posto alle macchine parcheggiate senza evitare le radici dei pini che continuano a bucare l’asfalto.

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Anche all’interno del civico 151 si sentono dei rumori: qualcuno sta lavorando, forse per ristrutturare l’edificio.
Da fuori non si vede niente se non un grande lucchetto che serra il portone principale.
Lì dove due mesi fa un manifesto chiedeva dove fosse la protezione internazionale, due piccoli cartelli avvisano che l’aerea è videosorvegliata e allarmata "per ragioni di sicurezza".
Sicurezza che, evidentemente, è un privilegio che spetta solo a pochi.

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