Sotto sfratto: Uccelli senza mappa
4 2 2019
Sotto sfratto: Uccelli senza mappa

La seconda puntata del reportage di Francesca Cicculli, scelto nel 2018 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo

Esiste un luogo, a Roma, dove è andata creandosi una comunità di rifugiati politici aventi diritto alla protezione internazionale. Sfrattati senza preavviso dalla casa in cui abitavano da più di dieci anni e costretti a vivere per strada fino a un nuovo sgombero il 3 ottobre 2018, in un'estenuante trattativa con il Comune e le istituzioni, i rifugiati di via Scorticabove sono oggi il segno vivente di paralisi politiche, contraddizioni sociali e aneliti esistenziali che nella dimensione locale trovano la loro massima espressione. Quale sarà il destino di padri, figli, lavoratori, disoccupati, studenti e sognatori dopo lo sgombero? Quali identità si nascondono dietro l'etichetta di "rifugiati"? Sotto sfratto di Francesca Cicculli è il reportage scelto a Festivaletteratura 2018 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo (qui l'introduzione del lavoro e la prima puntata). Al centro del secondo episodio la dispersione di alcuni membri sudanesi della comunità dopo lo sgombero, la testimonianza di Adambosh, le lotte che stanno cambiando il volto del Sudan.

UCCELLI SENZA MAPPA
[di Francesca Cicculli]

«Salvini ha ragione: se non lavori devi andare via».
«Ma se lavoro non c’è come faccio a lavorare?»
«A Roma il lavoro non c’è, ma se ti sposti fuori lo trovi. Nelle campagne c’è lavoro».
Arrivo nel quartiere di San Lorenzo due giorni dopo l’approvazione del Decreto Sicurezza e, nel locale dove trovo riuniti i sudanesi di Via Scorticabove, non si parla quasi d’altro.
Yayha scuote con decisione la testa: ha conservato la stessa determinazione, le idee precise espresse senza contrattazioni. Secondo lui il Decreto ha un grande difetto alla base: non guarda alle motivazioni che portano le persone a uscire dai loro Paesi, per questo sarà inefficace e produrrà solo ulteriore disordine e irregolarità.
«Ma alla fine è questo che vuole Salvini, no?»
«E tu che vorresti?»
«Io voglio fare il barista».
Per Yayha, quella di tornare in Sudan non è neanche un’ipotesi. Lui, che è in Italia da tredici anni, non si sente più un rifugiato ma un cittadino italiano. Mi racconta di un gruppo di sudanesi bloccati a Ventimiglia mentre cercavano di superare la frontiera:
«Per me loro hanno sbagliato, dovevano tornare a Roma come gli avevano proposto, non in Sudan. Che ci torni a fare in Sudan?»
Il locale dove mi hanno accolta è piccolo, poco illuminato, ma ha un bancone da bar dove alcuni ragazzi stanno preparando il tè.
È Salih a offrirmelo poco dopo, assicurandosi che non sia troppo bollente. Mi passa anche dei biscotti e poi fa un cenno a Yayha.
È solo quando la mia faccia si illumina di blu che mi accorgo di essere davanti un maxi schermo. A scorrere, una dietro l’altra, le foto scattate davanti a quella che un tempo era la loro casa. Maniche corte e angurie lasciano lentamente spazio a ruspe e rifiuti.
Il racconto di quei giorni si contrae in milioni di megapixel e diventa sempre più sfocato man mano che provo a ingrandire su ciò che è successo dopo il 3 ottobre.
Se prima contavano quanti giorni erano passati dal loro arrivo in Italia o quelli trascorsi al civico 151 di via Scorticabove, ora non ricordano neanche l’ultima volta che sono stati dall’Assessore Baldassarre e l’incontrarsi tutti i venerdì in questo locale dove sorseggiamo del tè, quasi in silenzio, sembra l’unico atto di resistenza che sono in grado di compiere.
Inzuppo un biscotto e lascio che siano loro a condurre il discorso.
Ancora una volta è il videoproiettore a moderare: Yayha fa partire dei video documentari del Sudan. Sono immagini di guerra: vedo corpi dilaniati, fosse comuni, sabbia che si alza e colora il cielo. Non c’è distinzione tra donne, uomini e bambini.
Quando inizia il terzo video nel locale siamo circa una decina, ci sono anche due volontari già incontrati quest’estate. I ragazzi si salutano tra loro stringendo mani e abbracciandosi per pochi secondi. Sono pochi rispetto a quelli che ero abituata a vedere, mi dicono che molti arriveranno più tardi perché lavorano, ma un paio d’ore dopo il numero non è cresciuto.
Esco fuori con Yayha, dall’altro lato del marciapiede i primi ragazzi entrano nelle birrerie.
«La sera, in Sudan, i ragazzi chiacchierano ma senza bere. E non ci sono lampioni, ci illumina la Luna. Mi manca la luna».
La migrazione determina il presente, condiziona il futuro, ma ha il peso di tutto quello che lasci nel passato, che sia la luna, una famiglia o il posto preferito di quando eri nel tuo villaggio. Yayha non vuole tornare in Sudan ma sa benissimo cosa vuol dire stargli lontano. È lui il pettirosso che noto sul muro mentre ci salutiamo: è arrivato con i colori del Sudan dipinti addosso. Una mano lo ha accolto, eppure lui non smette di piangere.
Piange perché quella mano ha il polso ammanettato e lui non può smettere di essere un uccello migratore.

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Cosa è accaduto dopo il 3 ottobre lo scopro due mesi dopo alla stazione Termini: è lì che Adambosh, uno dei portavoce della comunità, mi chiede di vederci prima di andare a lavoro. È un mediatore culturale e si divide tra varie associazioni, tra cui il Baobab Experience.
«Siamo uccelli senza mappa e senza casa», mi dice dopo esserci seduti al tavolino di un bar, ma da quello che mi racconta dopo mi rendo conto che la mappa è lui, o almeno è una delle coordinate: è lui che contratta ancora con l’Assessore Baldassarre, che sa dove alloggiano gli altri e che tiene viva quella linea che li unisce tutti.

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«Sono arrivati con le ruspe e hanno distrutto tutto, dicendo che dovevamo andarcene».
«Dove?»
«Da nessuna parte. Loro vorrebbero che sparissimo, ma non si può. Dove pensi che stiano quelli che sono stati sgomberati dal Baobab e dall’Ex-Penicillina? Sono tornati lì o dormono per strada».
Loro, invece, dopo il secondo sgombero si sono divisi:

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Ricostruiamo insieme una cartina della dispersione dei sudanesi: Tiburtina, Romanina, Casal Bertone, Prenestina, i principali quartieri dove si sono spostati dopo il 3 ottobre. Un paio di loro sono finiti nei centri SPRAR in quanto ancora richiedenti asilo. Quelli che stanno aspettando il ricongiungimento familiare si sono appoggiati per lo più da amici.
«E il Comune?»
«L’ultima volta che l’Assessore ci ha convocati è stato il 14 ottobre. Ci ha detto di continuare a scrivere il progetto perché faranno uscire dei bandi. Ma cosa scriviamo se non sappiamo che tipo di bandi usciranno? Per ora siamo fermi».

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Via, dunque, il progetto pensato per la Tenuta del Cavaliere: avevano richiesto di poter vedere la struttura o almeno di conoscerne l’ampiezza, così da pensare a un progetto adeguato, ma non glielo hanno permesso.
La promessa di una nuova convocazione è, per ora, sfumata nel silenzio, anche perché: «Nel frattempo sono successe altre cose».
Adambosh fa riferimento a questa calda stagione di sgomberi di cui loro sono stati solo i precursori, l’Ex-Penicillina tra gli ultimi:
«Quando sono entrato per la prima volta lì ho pensato: questo è un continente che non è ancora stato scoperto. C’era di tutto: gente che aveva perso la testa. Come fai a non perdere la testa in un posto del genere? Anche se c’erano degli italiani, io lì per la prima volta ho pensato che il popolo africano è finito.»
Adam fa silenzio per un po’, si guarda le mani mentre stringe il bicchiere con il succo d’arancia. Beve un sorso, cambia tono di voce, ed è come se ricominciasse da capo, ma questa volta la storia che racconta supera i confini europei e il Mediterraneo, passa per l’Egitto e parla di dominazioni, guerre civili, carestie e siccità, regimi militari.
È la storia che racconta quei perché che secondo Yayha dovrebbero essere alla base di un qualsiasi decreto sull’immigrazione.
«Il Sudan è una bomba atomica pronta a scoppiare», dice Adambosh.

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La costruzione della bomba, secondo lui, è partita già dal terzo secolo: la posizione del Sudan, infatti, lo predispone alle influenze e alle ingerenze del vicino Egitto, interessato alle ricchezze del Sudan e alla loro centralità nei commerci.
Non solo dominio egiziano: già dalla fine dell’Ottocento, infatti, entrarono nelle vicende sudanesi anche gli inglesi, per poi arrivare, durante il secondo conflitto mondiale, persino gli italiani.
Dopo aver proclamato l’indipendenza nel 1955, in Sudan si sono alternati governi militari che hanno favorito l’orientamento islamico e privilegiato la parte settentrionale del Paese.
Nel 1956 è entrato nella Lega araba e da allora si è cercato di trasformarlo in un paese islamico, anche se, sostiene Adam: «la maggior parte dei sudanesi non è neanche religiosa».
La situazione è poi degenerata con il Colpo di Stato del 1989, quando è stato imposto come presidente il generale Omar Hasan Ahmad al-Bashir.
Adambosh sostiene che il governo di al-Bashir sia il responsabile della guerra del Darfur, la causa principale della migrazione sudanese a partire dal 2003: «Ha dato armi alle tribù per uccidere i sudanesi e bruciarne le case».
Nel corso degli anni anche la polizia nazionale è stata gradualmente sostituita da milizie governative composte da siriani e palestinesi ai quali è stata data la cittadinanza sudanese.

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Tra queste vicende più chiare si inseriscono quelle dai contorni più sfocati: la guerra civile tra il nord e il sud durata più di quarant’anni; le frequenti carestie e le siccità; l’indipendenza del Sud Sudan decisa nel 2011, tramite referendum. Una divisione che, secondo Adambosh, nessun sudanese voleva.
Pronta la bomba, restava da accendere la miccia: il 18 dicembre, uomini, donne e bambini sono “usciti nelle strade” per protestare contro il governo.
«L’hanno chiamata “Rivoluzione del pane”, ma non è per la povertà che scendono in strada. Le proteste sono contro questo governo che non ha fatto altro che dividere e impoverire il Paese».

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Le proteste sembrano non guardare alle divisioni politiche: si protesta nella capitale, Khartum, nelle piccole città, nel Darfur.
«Nella zona tra Libia e Sudan le milizie governative hanno ucciso circa duecento persone occupate nell’estrazione dell’oro».
Secondo Adambosh li hanno uccisi perché la rivoluzione sta andando bene e non volevano che arrivassero nuovi sostenitori.
Il governo ha, inoltre, bloccato Internet: le poche notizie che circolano sono frutto del lavoro nascosto e pericoloso di studenti e professori universitari. Numerosi gli arresti già avvenuti.
In Italia, invece, il sostegno alla rivoluzione si fa davanti l’ambasciata sudanese a Roma. Il 27 dicembre si è svolta una manifestazione che ha avuto grande seguito:
«Il sostegno alla rivoluzione ci ha riunito, ora lottiamo di nuovo per qualcosa. Sono arrivati sudanesi da tutta l’Italia».
Khartum e Roma unite in nome di una storia e di una lotta che non cessa di esistere neanche quando la migrazione termina.
Adambosh puntualizza dicendo quella sudanese sarà una rivoluzione diversa rispetto a quella tunisina:
«Quelli che scendono in strada non vogliono uccidere. Vogliono combattere il governo con i mezzi opposti a quelli che usano le milizie. Niente violenza, ma manifestazioni pacifiche. Anche i ragazzini protestano andando davanti il parlamento o le strutture pubbliche».
Anche i bambini, infatti, sanno cosa vuol dire vivere sotto il regime di al-Bashir: da quando compiono dieci anni sono obbligati, per almeno due anni, all’addestramento militare: «Dicono che serve per la difesa nazionale».
Nonostante le proteste diventino sempre più insistenti, il generale non sembra deciso ad abbandonare il comando, ma continua a sostenere che risanerà il Paese.

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Per risanare il Sudan, però, secondo Adam, dovrebbe essere impedito a russi, cinesi, Lega araba e inglesi di prendere le ricchezze del territorio sudanese: il Qatar, l’Arabia, Dubai, sono stati costruiti da sudanesi; la ricchezza derivante dall’oro non rimane in Sudan.
«I sudanesi sono arrabbiati anche per questo: il governo di al-Bashir ha costruito gli altri Paesi ma non il proprio. Era ora che il Sudan alzasse la testa. È il momento giusto: ora non è come un tempo, ora i giovani leggono, si informano. Se non uscivano gli uomini sarebbe scoppiata la rivoluzione femminile. Sono le donne i veri leader in Sudan».
Adambosh mi spiega poi che la deflagrazione della “bomba Sudan” potrebbe arrivare fino in Ciad:
«Prima tra Ciad e Sudan non c’erano confini: la gente era mischiata, molte famiglie sono miste, come quelle di Yayha e Salih.
Lo stesso Presidente del Ciad è figlio del Sudan, ha studiato da noi e ora è preoccupato che, se quella sudanese dovesse finire bene, possa scoppiare la rivoluzione anche in Ciad».
In questo caso interverrebbe la Francia, come già è successo in passato, poiché ha degli interessi da difendere: il 50% delle risorse del Ciad, secondo Adam, finisce nelle casse dello Stato europeo, sulla base di accordi che risalgono al periodo del post colonialismo e che il governatore del Ciad ha provato a modificare nel 2011, ottenendo come risultato la formazione di milizie francesi che hanno represso ogni tentativo insurrezionale.
«I militari francesi che sono in Ciad prendono lo stipendio dagli africani, non dalla Francia. Il Ciad è ancora una colonia», puntualizza.
Sull’esito positivo della rivoluzione sudanese Adambosh è fiducioso: ci vorrà del tempo ma darà l’esito sperato. È per questo che ai suoi amici e a tutti gli studenti dice di non uscire più dal Sudan, che ora è il momento di stare lì e lottare, resistendo anche agli arresti.

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«I sudanesi hanno la volontà, ecco perché funzionerà. Probabilmente la rivoluzione in Sudan finirà prima dell’uscita dei bandi del Comune», scherza, prima di dire che è pronto a tornare nel suo Paese non appena cadrà il governo.
«Che resto a fare qui? In Sudan ho mia madre, mia sorella e i miei amici».
Penso a Yayha, chissà se anche per lui, adesso, si è aperta la possibilità di tornare a casa.
Nel frattempo il succo d’arancia è finito, il bicchiere si è svuotato. Adambosh deve recuperare la macchina per poi andare a lavoro, ci salutiamo davanti il tabellone delle partenze:
«La bomba esploderà. L’Africa tornerà la terra degli africani».
E i pettirossi ricominceranno a volare.

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